Alberto Bencivenga
FUMATA BIANCA
PER UN PAPA NERO.
Racconti morali
[Titolo alternativo: RACCONTANO LE DUNE]
STATISTICA
Parole 63.658
Caratteri: 338.343
I racconti di questo libro, anche se hanno lo scopo di esprimere e di difendere alcuni principi, sono opera di fantasia.
Alcuni personaggi effettivamente esistenti e vari avvenimenti sono utilizzati in forma romanzata. Pertanto, i pensieri, i dialoghi e le opinioni comunque espressi mediante questi personaggi sono da considerarsi esclusivamente come frutto dell’invenzione dell’autore.
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
A mia moglie,
senza il cui sorriso
i fiori non avrebbero colore.
A Hans Küng,
mio concittadino in senso accademico
(anch'io ho imparato e insegnato
in quell’attrezzatissima palestra della mente che è l'Università di Tubinga),
per ringraziarlo del suo coraggio e della sua onestà intellettuali.
A. B.
Il primo racconto (“L’asteroide”) è, probabilmente, una diretta conseguenza del secondo nel campo della teologia morale. A suo modo è un instant tale, che si rifà alla vicenda di Elisabetta, la bambina nata tre anni dopo la morte della madre, dal grembo della sorella di suo padre, la cui nascita riempì di polemiche fra medici e ambienti cattolici i giornali italiani del gennaio 1995 (il pranzo all’ambasciata italiana di Nairobi coll’inesistente Cardinal Ersili non è vero, perchè la discussione riportata verbalmente è invece avvenuta ad un cocktail all’ambasciata argentina e con un altro alto prelato, invece, esistente!). Il trucco di una nuova malattia mi è necessario per costringere il lettore a seguire, senza precondizionamenti, una logica secondo cui sessualità e riproduzione sono due entità che assolutamente nulla di razionale o di etico hanno in comune, anche se possono gravitare, in certe fasi, attorno agli stessi organi.
Poi, mi faccio prendere un po’ la mano dalla passione politica, ma come si fa a rimanere persone oneste, oggi, senza lottare contro il becerismo rappresentato da Berlusconi e l’inconcludenza di Prodi? Come si fa a sospendere il pensiero sulla morte assolutamente inutile ed evitabilissima di giovani soldati italiani in Somalia e a non gridare il proprio sdegno di fronte all'insipienza dei loro superiori, sia politici che militari? (La descrizione dell’episodio a Mogadiscio, dove questi ragazzi sono stati stupidamente lasciati morire, è la più vicina alla realtà storica, perchè tanto un ufficiale italiano presente al fatto con le nostre truppe, quanto due somali che erano invece tra la folla, mi hanno narrati i fatti, indipendentemente l’uno dall’altro e in tempi diversi, esattamente allo stesso modo).
Siccome le vicende politiche italiane si sono andate dispiegando in questi ultimi tempi con una notevole velocità, mi è toccato adottare d'urgenza, qua e là, qualche modifica, nelle more della pubblicazione. Tipico, per esempio, è stato il rimaneggiamento di qualche pagina reso necessario dalle ultime elezioni politiche e dalla vittoria dell'Ulivo che, quando è stato scritto il racconto, non erano ufficialmente previste.
Il secondo racconto (“La tomba in Kashmir”), invece, di inventato non ha che la persona che mi narra la storia. La tomba è, infatti, custodita da secoli da donne della stessa famiglia (parenti dell’uomo sepolto nella tomba? Forse sì, in India anche cose che appaiono come leggende possono essere fatti perchè lì tutto si conserva nei secoli) e l’attuale custode, anche se squisitamente cortese come il Dottor Yusuf Daud, non ha la cultura di questo, perchè, in Kashmir, le donne è difficile che vadano all'università e a me occorreva invece una persona di notevole cultura, che potesse simbolizzare gli intensi studi e le dettagliate ricerche che quella tomba mi ha spinto a fare, dopo essermi trovato di fronte a tradizioni indiane che la cultura e il pensiero religioso occidentale ignorano totalmente o preferiscono far finta di ignorare.
Avrei potuto farmi narrare la storia da uno dei membri veri della famiglia dei discendenti dell'uomo sepolto in quella tomba, ma questi fanno gli albergatori e sono molto più preoccupati per la gestione del loro ristorante e per il calo del turismo in Kashmir, per via delle note vicende che oppongono India e Pakistan per il possesso della regione, che di storia delle religioni. E poi ho trovato almeno spoetizzante osservare quanto poco interessanti siano oggi i discendenti di tanto avo, anche se cucinano molto bene!
Per amore di completezza, debbo dire che quando scrissi questa storia pensavo di riportare una pia leggenda indiana, un po’ curiosa e forse anche offensiva per qualche occidentale. Ora, però, dopo due anni di letture e ricerche, sono invece convinto che non si tratti affatto di una leggenda e che le cose siano invece andate allora proprio così come Yusuf Daud me le narra. In fondo, radicati in antiche tradizioni popolari, registrati in innumerevoli pergamene dell’epoca conservate in tante lamaserie, ma, specialmente, a Lhasa e collegati addirittura a nomi geografici, ci sono molti più indizi della presenza dell’uomo della tomba in India di quanti non ne abbiamo noi della vita di Giulio Cesare: eppure nessuno si sogna di mettere in dubbio che Giulio Cesare sia stato nelle Gallie!
Non sempre quello che uno scrive è il risultato di un progetto. Infatti, può benissimo succedere che una storia nasca da sola, semplicemente perchè uno ha provato una forte emozione e sente il bisogno di manifestare questa esperienza.
Qualcosa del genere è avvenuto per l’ultimo dei tre racconti di questa breve raccolta ("Un racconto di sabbia").
In India, a cavallo del febbraio e marzo del 1994 con una rappresentativa del Nairobi Polo Club per giocare partite amichevoli con squadre del Rajasthan e dell'Esercito indiano, fummo dovunque accolti con un senso dell'ospitalità di altri tempi, da gente, aristocratici e popolo, per cui il gioco del polo fa parte di un'antica, millenaria cultura (la prima partita di polo registrata dalla storia fu giocata duemila e seicento anni fa fra persiani e turcomanni).
Il Maharajah di Jodhpur, Bapji per gli amici, ci mise a disposizione il suo treno personale, con cui, da Jodhpur, andammo a visitare Jaisalmer, antica città, nel bel mezzo del Deserto del Thar, di una bellezza architettonica incredibile. Apparsa come un incanto davanti ai nostri attoniti occhi di moderni occidentali, abituati alle forme dettate dalla funzione più che dall'armonia e dalla bellezza, richiamò irresistibilmente alla mia memoria le concise, scintillanti parole con cui Borges descrive nel suo "El Aleph" la città degli immortali, per poi fissarsi indelebilmente nei miei ricordi.
Visitare Jaisalmer fu infatti una continua sorpresa e, durante il viaggio notturno di ritorno a Jodhpur, il ricordo della Città d'oro, come Jaisalmer viene chiamata per via del colore della pietra con cui è costruita, continuava ad essere padrone dei miei pensieri. Mi alzai, quindi, dal mio letto e, nel vagone sala da pranzo, mi misi a scrivere di getto la vicenda narrata nel racconto "Una storia di sabbia”. Questo racconto è interamente di fantasia, anche se inserito nel preciso contesto storico del regno di Aurangzeb, il figlio degenere del costruttore del Taj Mahal, e i nomi geografici e di personaggi in esso citati, le battaglie menzionate, le punizioni, le abitudini e i costumi, compreso l’uso sociale dell’oppio, erano cose allora d’ordinaria amministrazione e che possono essere, infatti, trovate a piene mani in tutta la secolare storia dell’Impero del Mughal (o Moghul che dir si voglia). Solo l’eroe della storia è inventato.
Due ultime note.
Se non fossi stato un attivo e appassionato giocatore di polo, probabilmente non avrei potuto immaginare nè la seconda novella nè il racconto finale, perchè difficilmente mi sarei imbattuto in ciò che mi ha dato l’ispirazione e lo sprone.
Spero quindi d’essere scusato se, alla prosa, premetto un omaggio “poetico” (che i veri poeti mi perdonino!) al gioco più antico e più bello che ci sia.
Se non avessi avuto la moglie che ho, forse avrei descritto in modo diverso certi sentimenti di coppia. Per cui, spero anche per questo di essere scusato se ho ceduto, alla fine dei racconti, alla tentazione di dire a mia moglie in pubblico quello che penso di lei in privato.
Nairobi, giugno 1997
A. B.
PREFAZIONE A QUESTA EDIZIONE
Con gratitudine immensa, dedico questa ristampa a Maria, la scomparsa, meravigliosa compagna della mia vita, il cui sorriso dava ai fiori i loro colori. Fu lei che mi spronò a scrivere queste storie e spero che mi perdoni perchè non ero lì a tenerle la mano mentre moriva e per non averla curata io stesso anche questa volta, come sempre nel passato; al mio gattino, che, gettato via come spazzatura subito dopo essere nato, guidato da lei arrivò nella mia casa il giorno dopo che tutto il mio mondo m’era crollato addosso e la mia vita era diventata solo tenebra e disperazione, si fece nutrire, accudire e curare da me, facendomi ritrovare uno scopo per i miei giorni svuotati; ai nostri meravigliosi cavalli, che Maria curava e addestrava con tanta passione e devozione e che furono per anni nostri amati compagni di gioco sui campi del polo; a Susanne, la mia nuova compagna, per la generosità con cui accetta che il sorriso di Maria continui a riempire il mio cuore e, perché, con le sue attenzioni, cerca di ridare un po’ di normalità alla mia vita, mentre quelli da cui, se non altro, per vincoli di sangue, mi sarei dovuto aspettare un po’ di conforto, accecati da una vergognosa avidità di denaro, mi danno, invece, solo fiumi di rabida malvagità.
A. B.
Quando queste pagine furono scritte e pubblicate per la prima volta, abitavo a Nairobi e vivevo la vita più felice che un uomo possa desiderare, avendo a fianco una compagna di vita e di gioco meravigliosa, la madre dei miei figli.
Poi, un brutto giorno, l’angelo della morte me l’ha tolta e, da allora, i fiori hanno perso per me i loro colori, il sorriso è scomparso dalle mie labbra e la mia vita s’è sostanziata di tristezza, nonostante tutto quello che abbia tentato di fare per ridare alla mia vita un po’ di serenità e di normalità .
Amico lettore, abbraccia chi ami ogni volta che puoi: ora io mi pento amaramente per tutte quelle volte che avrei potuto farlo e non l’ho fatto!
La mia vecchia prefazione terminava con due note. Questa nuova terminerà solo con una: purtroppo non sono stato buon profeta, nè per quanto riguarda la recente storia del papato né per quella delle più recenti elezioni politiche italiane, perché, se le cose fossero andate in altro modo, oggi non si assisterebbe alla fine dell’etica nella politica italiana e all’inutile scontro frontale fra laici e cattolici, i primi per difendere ovvii principi di civiltà e democrazia, i secondi per conservare il loro potere, con l’aiuto di chi è abituato a vendersi a chi paga di più.
Buona lettura!
A. B.
Roma, aprile 2009
IL GIOCO DEL POLO
Galoppo gioioso di cavalli attentissimi; vento che ti fischia nelle orecchie; colpi secchi di stecche volteggianti; concitati gridi e richiami... "Al centro!" "Lascia!" "Prendi l'uomo!" "La linea è tua!"... Un ultimo urto, che spinge via il mio avversario; ancora un colpo che fa volare la palla fra i pali. E il mio cavallo nitrisce orgoglioso. Amico poeta, tu sai chi ha creato il polo? Quando, un giorno lontano, un Iddio generoso mise l'uomo e il cavallo in simbiosi, non voleva cambiare la storia, perchè non è per la guerra, che ci fu dato il cavallo, o poeta che ne canti il coraggio in battaglia, ma per la pace. Per conoscerci meglio e per meglio conoscere il mondo. Per insegnarci che ogni creatura del buon Dio ha il suo valore e che, se l'uomo ha il pensiero, il cavallo ha la forza e la generosità. Però, poeta, è soprattutto per giocare insieme, a chi ha più coraggio, a chi è più abile, a chi resiste di più che ci fu dato il cavallo. Per essere insieme felici, noi e i nostri fratelli dalle lunghe criniere, sui campi del gioco più bello. È per questo, poeta, che, da duemila e seicento anni, | si ripete il rito del polo, dono di un grande Dio a uomini semplici, ai pastori dell'Hindu Kush, delle pianure afgane e persiane, degli altipiani d'India. Ai pastori di Gilgit che lo giocano da secoli all'ombra dell'Himalaia. A Shah Abbas che lo giocava nella più bella piazza della città fatata di Isfahan. Al grande Akbar che lo giocava nelle pianure fluviali dell'India sconfinata. Lo sai, poeta, che a Gilgit, che a Jaipur, che a Jodhpur, città di stirpi guerriere, di uomini generosi, di cavalli possenti, non c'è uomo, non c'è donna, il cui cuore non batta più veloce, al pensiero del polo? Lo sai, poeta, che nella pampa argentina, mare d'erba senza confini, patria di gauchos e di sognatori, il polo è come una preghiera? Anch'io ho giocato a Gilgit, sotto l'Himalaia, tempio di Dio, A Jaipur, dalle case rosa, a Jodhpur, dalle case azzurre, nella pampa argentina, mare d'erba. Anch'io, poeta, sono stato felice sui campi del polo. Con lei. A. B. |
L'ASTEROIDE
(Racconto quasi di fantascienza)
*
Diversi anni fa (doveva essere la metà di gennaio del 1995, un anno che ci appare, oggi, così remoto dopo tutto quello che è successo nel frattempo) l'ambasciatore d'Italia a Nairobi offrì una cena in onore del Cardinal Ersili. Questi era venuto in Africa per due motivi. Per visitare il suo illustre collega, il Cardinal Otunga, primate del Kenya, allora piuttosto malato, e per rendersi un po' conto, di persona, di quello che stava succedendo ai cristiani del Sudan del sud. Alla cena fummo invitati anche mia moglie ed io.
Siccome tutti i commensali erano d’origine italiana, si finì col parlare quasi sempre dell'argomento che, all'epoca, era di maggiore attualità in Italia: la crisi politica dopo le dimissioni del governo di Berlusconi, causate dalla defezione di Bossi.
Era un argomento che coinvolgeva tutti perchè tutti consideravano oggettivamente difficile il processo di rinnovamento del mondo politico italiano, che si era appena iniziato, dopo Mani Pulite, e tutti si rendevano chiaramente conto della grandezza di queste difficoltà, legate al fatto che la vecchia classe dirigente politica si era, sì, dimostrata generalmente furfantesca e totalmente priva di etica, ma non c'era alcun dubbio che essa era costituita, generalmente, da gente furbissima e abilissima e, quindi difficile a rimpiazzarsi, mentre il governo presieduto da Berlusconi, dopo le elezioni del 27 marzo 1994, aveva dato prove indiscutibili di generale incompetenza tecnica e, cosa assai più grave, non aveva per niente convinto di essere meno lottizzatore e più morale delle compagini governative a cui la vecchia Democrazia cristiana e il vecchio partito socialista avevano abituato gli italiani. Il cardinale, uomo evidentemente onesto e genuino, ad un certo punto, mentre ci si chiedeva perchè il governo di Berlusconi, invece di mettersi, anima e corpo, a rimettere in sesto i bilanci dello stato e ridurre le mille costosissime partecipazioni statali, aveva dedicato tutte le sue energie quasi esclusivamente alla colonizzazione della televisione statale, esclamò convinto e illuminante (almeno per quelli di noi che, lontani dall'Italia da anni, non potevamo conoscere bene i retroscena politici italiani): "Ma come volete che Berlusconi privatizzi, per esempio, le banche su cui lo stato esercita il suo controllo? È esposto per miliardi con queste e senza altra garanzia che la raccomandazione di Craxi, allora capo del governo e, se le privatizza, la prima cosa che farebbero i nuovi proprietari sarebbe di chiedergli la restituzione dei prestiti! Certo che ha voluto assicurarsi il controllo della televisione statale. Per lui è essenziale garantirsi il reddito parassitario della pubblicità per vincere le prossime elezioni. È l'unico modo che ha per rimandare o evitare il momento del redde rationem!"
A questo punto, però, uno spiritoso, che poi era il rappresentante di Forza Italia in Kenya, contando sul fatto che la presenza attorno alla stessa tavola di un Cardinale di Santa Romana Chiesa, l'ospite d'onore, e di un chirurgo, me, ospite invece con un carattere del tutto riempitivo, prometteva scintille e poteva far dimenticare la spinosa questione del perchè Berlusconi era entrato in politica, spostò la conversazione sull'altro argomento che si divideva, con la crisi di governo, le prime pagine dei giornali italiani di quei giorni: la nascita di una bambina, Elisabetta, oltre due anni dopo la morte della madre biologica, nascita avvenuta da un uovo fecondato tre anni prima, conservato in frigorifero e poi portato a maturazione dopo essere stato impiantato nel grembo della zia paterna della bambina.
Naturalmente il Cardinale ribadì il giudizio già pubblicato dall'Osservatore Romano qualche giorno prima, secondo cui si trattava di una mostruosa manipolazione della natura.
Per ragioni di rispetto al padrone di casa, io evitai di prendere parte alla discussione che subito divampò, ma quando fu lo stesso anfitrione a chiedermi che cosa pensassi, come medico, della questione, allora non potei più esimermi.
"Per una volta," dissi, "credo di non essere d'accordo con quanto detto da quella grande donna che è il premio Nobel per la medicina, Levi Montalcini" (e qui il Cardinale ebbe subito un sorriso discreto, come di trionfo elegantemente dissimulato, perchè non doveva essergli accaduto spesso di trovare un medico che non condividesse l'opinione espressa dalla Dottoressa Levi Montalcini) "perchè non si è trattato, come lei ha dichiarato, di un semplice atto di generosità, anche se grande, ma di un atto, secondo me, di commovente generosità, di commovente solidarietà familiare e di grande amore per la vita, oltre tutto, perfettamente obbediente alle leggi generali della natura, che richiedono, ai singoli individui, di conservare la specie, a qualsiasi costo".
"Mi rendo conto che uno possa, stravolgendo in perfetta buona fede la realtà, pensare che si sia trattato di un fatto commovente;" rispose il Cardinale, "ciò non toglie, però, che il fatto sia stato profondamente illecito, innaturale e assolutamente contrario ai disegni di Dio, perchè Dio ha disposto che la vita fosse iniziata in modo diverso, tanto è vero che ha dotato gli uomini e le donne di organi specifici ed ha fornito agli esseri umani (ed anche agli animali, per questo) l'istinto sessuale, un istinto finalizzato esclusivamente alla creazione della vita".
Ormai il dado era tratto e non potevo nè volevo più tirarmi indietro, perchè non c'è niente che mi mandi più in bestia di queste banalizzazioni dei fatti, anche se compiute in buona fede e con onestà di intenti, ma che non tengono presente né la vera realtà scientifica, nè una corretta logica.
"Mi dispiace, Eminenza, di dover dissentire totalmente. La sessualità, a cui lei si riferisce quando parla di istinto sessuale, e la procreazione sono due cose che non hanno assolutamente niente di etico in comune, anche se, ad un certo punto, possono aggirarsi attorno agli stessi organi. Vede questo coltello? Me ne posso servire per tagliare a fette questo pezzo di pane. Però posso anche usarlo per tagliare la gola alla signora che mi siede accanto ed assassinarla. Ora, l'azione di tagliare a fette il pane e l'azione di assassinare la nostra gentile commensale non hanno assolutamente nulla di etico in comune, anche se possono essere compiute, tutt'e due, con lo stesso strumento. Esattamente lo stesso si è verificato nel caso della nascita di Elisabetta, che è infatti avvenuta senza alcuna implicazione di natura sessuale, proprio perchè il sesso può, al massimo, essere considerato, sul piano logico, come un elemento accessorio e non certo obbligato della procreazione, come qualunque allevatore di bovini sa benissimo, anche se, fino ad oggi, l'umanità aveva sempre fatto bambini soltanto per via sessuale, semplicemente perchè non conosceva altri sistemi. Come dovevasi dimostrare.
Se poi (ed ora parlo da creazionista, anche senza esserlo) vogliamo avere l'arroganza di metterci a capire quale sia veramente stato il pensiero di Dio quando ha creato quello che lei ha chiamato istinto sessuale finalizzato alla procreazione, allora scopriamo cose ben diverse dalle aberranti vedute sul sesso che avevano gli esseni e che la teologia cattolica ha fatto proprie in gran parte e continua, almeno per certi aspetti, ad imporre ai fedeli.
Vede, non è assolutamente possibile paragonare gli umani agli animali, perchè funzioniamo in modo del tutto diverso. A casa mia viviamo in grande consuetudine con i cavalli, perchè, sia noi genitori che i nostri figli, siamo tutti appassionati giocatori di polo. Trovo quindi spontaneo spiegarle certi fatti biologici che hanno importanti conseguenze nell'argomentazione teologica, usando i cavalli come esempio, ma potrei dire le stesse cose esemplificando con qualsiasi altro animale.
Lo stallone non va con una giumenta perchè questa è bella o spiritosa o intelligente o colta, come facciamo noi uomini con le donne che ci piacciono. Lo stallone ha nella bocca un organo speciale che funziona come un laboratorio chimico. Quando il cavallo percepisce l'odore di una giumenta (gli addetti ai lavori direbbero quando l'olfatto porta allo stallone i ferormoni emanati dalla giumenta), il suo organo orale analizza queste sensazioni olfattorie e, se il risultato di quest'analisi informa il suo diencefalo che la giumenta ha l'odore particolare causato dalla presenza di un uovo pronto per essere fecondato (gli allevatori dicono se la giumenta è in calore), allora, per ordine del diencefalo, vengono immediatamente riversati nell'organismo dello stallone gli ormoni necessari a mandarlo in erezione e a spingerlo a coprire la femmina. Questa può essere la più ributtante delle ronzine, guercia, zoppa, rognosa e piena di zecche, mentre il nostro stallone può essere il nobilissimo Ribot: non cambierebbe nulla, perchè l'affettività non c'entra nei rapporti fra stallone e giumenta; c'entra solo la biochimica e, infatti, quando la giumenta non è in calore lo stallone non se ne cura per niente.
Nulla di simile, invece, succede negli umani. Io non vengo attratto da mia moglie quando lei emana un odore particolare perchè ha un uovo pronto. Io vengo attratto da lei perchè ha un modo di essere che mi rasserena, perchè la stimo, perchè sono felice con lei, perchè mi piace la sua figura, perchè ammiro il suo modo di affrontare le cose, perchè mi interessa la sua cultura e il suo modo di ragionare... perchè, cioè, lei ha, per me, tutte quelle caratteristiche che mi spingono a quel movimento dello spirito che, nella maggioranza delle lingue che usiamo, è espresso dal verbo amare e che può coinvolgere, ma non necessariamente, anche l'eros.
Dunque, cercando di indovinare i disegni del Creatore, debbo pensare che Egli mi ha donato le gioie della sessualità, facendo di queste una categoria dello spirito, cosa che ha invece negato agli animali. Dunque, il Creatore aveva in mente per noi umani un modo di riprodurci non animalesco, un modo che è, in noi, totalmente e rigorosamente separato dall'istinto sessuale, altrimenti, se avesse voluto tenere sessualità e riproduzione come due facce della stessa medaglia, avrebbe messo anche nella bocca degli uomini un organo analogo a quello degli stalloni e degli stalloni ci avrebbe dato la biochimica.
Questa osservazione porta, secondo me, a conseguenze di grande momento, sul piano dell'etica. Deve sicuramente essere considerato un peccato gravissimo, quello di fecondare un uovo per sbaglio, semplicemente perchè due coniugi stanno insieme a fare l'amore, ma non hanno, con un precedente e deliberato atto di volontà, deciso di avere un figlio, per cui gli anticoncezionali dovrebbero essere considerati degli oggetti, se non proprio di culto, comunque da distribuire nelle chiese, come strumenti per la salvaguardia dell'etica. Deve sicuramente essere, agli occhi di Dio, un peccato gravissimo sputare sui Suoi doni, come avverrebbe quando una moglie e un marito sono a letto insieme e non si donano l'un l'altro il massimo del piacere che sono capaci di darsi reciprocamente. Appiccicare la procreazione della prole ai moti dello spirito che portano un uomo ed una donna ad amarsi è assolutamente aberrante. Mia moglie ed io siamo sposati da oltre 34 anni, siamo felicissimi insieme e facciamo l'amore, da quando ci siamo sposati, ogni volta che possiamo, se siamo liberi da impegni di lavoro e ci troviamo in vacanza, anche più volte nella stessa giornata, quindi, secondo le aberranti dottrine della Chiesa, dovremmo forse avere 34 figli? Ne abbiamo invece solo due e siamo orgogliosissimi del fatto che li abbiamo concepiti tutti e due deliberatamente, dopo una lucida decisione presa in comune, con un atto esplicito e premeditato di volontà e di donazione e, di tutti e due, conosciamo non solo la data di nascita, ma anche il momento e il luogo in cui sono stati concepiti.
Questa, Eminenza, è nobile etica matrimoniale, non la volgarità di studiare il calendario e la temperatura corporea, prima di abbandonarsi nelle braccia l'uno dell'altra, come poteva venire in mente solo ad un uomo amorale, gelido e privo di sensibilità, come deve essere stato Pio XII.
Eminenza reverendissima, il fatto che l'eiaculazione in vagina può, spesso, provocare una gravidanza, non significa nè che sia un imperativo etico il dover provocare questo fenomeno ad ogni congregatio, come dicevano i vecchi testi di morale per i seminaristi, nè che il coito debba essere considerato come l'unico modo lecito di provocare una gravidanza. Vede, Eminenza, è questione di tempo e di sviluppo tecnologico, ma è un fatto certo che, prima o poi, si troverà il modo di incubare uova fecondate e di farle schiudere in un’incubatrice, anzichè nell'utero materno. In teoria, questo potrebbe essere un metodo assai conveniente per garantirsi la sicurezza di prevenire malattie e malformazioni del prodotto del concepimento, per preservare la salute delle madri e per riconoscere anche a donne gravemente ammalate, il diritto ad avere figli, senza il rischio di dover pagare questo diritto con la propria vita. Sembra fantascienza, ma le assicuro che gran parte della tecnologia necessaria è già in nostro possesso".
A questo punto l'ambasciatore fu chiamato al telefono da un funzionario della sua cancelleria, che lo informò delle ultime notizie arrivate per telescrivente dall'ANSA. Così ebbi la possibilità insperata di poter smettere di scandalizzare un principe di Santa Romana Chiesa, perchè l'attenzione di tutti fu riportata alle vicende politiche italiane, quando l'ambasciatore ci fece sapere dell'incarico appena dato a Dini di formare un nuovo governo.
"Ah, poi c'è una notizia curiosissima" aggiunse l'ambasciatore. "Dicono che gli astronomi abbiano avvistato un asteroide che pare stia viaggiando lungo una rotta di collisione con la terra. Se ci colpisce, nessuno potrà più sapere se Elisabetta sarà felice o no in futuro".
Continuammo a chiacchierare del più e del meno finchè, poco prima di mezzanotte, ce ne andammo tutti alla spicciolata, nel mio caso non prima di essermi scusato con l'ambasciatore per aver antagonizzato così radicalmente il suo ospite d'onore.
"Al contrario, la ringrazio perchè ha reso la serata più interessante, aprendo prospettive e dando punti di vista a cui, forse, nessuno di noi aveva pensato".
*
Alcuni giorni dopo quella serata che l'ambasciatore aveva avuto la bontà di considerare interessante, scoprimmo tutti che la notizia dell'asteroide era quella a cui avremmo dovuto prestare l'attenzione maggiore, invece di riderci sopra, perchè quell'asteroide, dopo aver fatto provare all'intera umanità che cos'è effettivamente il terrore di non avere più un futuro, si sarebbe incaricato di far proseguire la discussione avuta col Cardinale, impartendoci a tutti una serie di insegnamenti che cambiarono la vita e il modo di pensare dell'intera umanità.
Ormai, a cose fatte, gli scienziati sono, infatti, d'accordo che i presenti grandi cambiamenti etici, esistenziali e sociali, rispetto ai precedenti venti secoli di Cristianesimo, incominciarono proprio con l'arrivo del famoso asteroide, che fece impazzire di terrore l'umanità nei primi mesi del 1995.
Come tutti ricorderanno, a quel tempo, un enorme meteorite, che tutti però continuarono a chiamare asteroide, dopo che le agenzie di stampa e i giornali avevano usato, all'inizio, quel termine erroneo, proveniente da chissà dove nello spazio, entrò nella sfera di attrazione gravitazionale della terra. Per via delle sue dimensioni, la previsione era che ogni forma di vita nel nostro pianeta sarebbe stata annichilita dall'impatto, ove questo si fosse verificato, e la gente parlava, infatti, con terrore, dell'imminente fine del mondo.
Poi, invece, avvenne che l'asteroide esplose nella stratosfera, letteralmente polverizzandosi in gigantesche nubi di impalpabile materia, che oscurarono l'atmosfera terrestre, bloccando ogni radiazione luminosa per molte settimane, prima di depositarsi, come finissima polvere, sull'intero pianeta.
Dopo le pazzesche variazioni climatiche seguite alla schermatura dei raggi solari, prodotta da quest’impalpabile polvere, nel giro di poco più di un anno, tutto era tornato come prima: la neve scomparve dal Sahara e dal Kalahari, il ghiaccio che aveva unito l'Inghilterra all'Europa continentale si sciolse dopo qualche mese e il clima riprese a scandire le stagioni, come prima.
Nessuno dette, a quell'epoca, soverchia importanza all'epidemia di manifestazioni allergiche, spesso anche mortali, che cominciò qualche giorno dopo che il sole fu oscurato dalle scorie dell'asteroide, perchè altri pensieri ed altri terrori riempivano gli animi dell'umanità, e, solo dopo diverso tempo, si riuscì a capire la genesi di queste allergie respiratorie, quando cioè ci si accorse che questa polvere era composta da sequenze di carbonio, idrogeno ed ossigeno, del tutto simili a quelle degli aminoacidi presenti dappertutto nel mondo animale e vegetale e, quindi, capaci di provocare reazioni allergiche.
Poi, l'esilarante sensazione che la fine del mondo, vista da tutti come imminente e inevitabile, era stata invece, all'ultimo momento, rimandata, riempì le menti di tutti ed ognuno celebrò l'evento secondo la sua natura: ci fu chi andò nelle chiese e nei templi a ringraziare Dio e chi, invece, si diede alla bella vita, avendo visto con che facilità questa si sarebbe potuta perdere. Qualcuno si limitò a prendersi una bella sbronza ed altri fecero sinceri voti di cambiare vita. La maggioranza, invece, riprese la sua vita di sempre.
Dopo un certo tempo, quando l'umanità aveva ormai cominciato a dimenticare il concreto terrore della fine del mondo che aveva provato quando l'asteroide impazzito si avvicinava alla terra con moto uniformemente accelerato, si era lentamente messa in moto una serie di fenomeni che, all'inizio, non avendo ancora un'evidente rilevanza statistica, non preoccuparono nessuno e furono notati solo da pochi studiosi.
Circa un anno dopo l'esplosione dell'asteroide, quando ormai quasi nessuno parlava più della grande paura, in tutto il mondo si incominciò ad osservare un lento e graduale aumento di aborti spontanei negli animali mammiferi.
Questi aborti avvenivano senza preavviso, poco prima della metà dello specifico periodo di gravidanza previsto per ciascun genere di animali e i veterinari non riuscivano a trovare alcuna ragionevole spiegazione per il fenomeno, che però sembrava diffondersi con allarmante rapidità.
I primi ad osservarlo e ad esserne fortemente danneggiati furono gli allevatori in Argentina, in Botswana, in Australia e in Nuova Zelanda, dove, gradualmente, le mandrie di migliaia di capi, fino ad allora comuni nella pampa argentina o nelle pianure attorno al Kalahari, si ridussero a poche centinaia di capi per via della drastica riduzione della produzione di vitelli.
Lo stesso avveniva ai danni della fauna selvatica, sicchè, nei parchi nazionali dell'Africa, per esempio, si potevano vedere, già al principio del 1996, più turisti che mammiferi, ciò che spinse gli operatori turistici ad offrire, prevalentemente, vacanze al mare o safari per bird watching, per vedere volatili.
Naturalmente, ricercatori e scienziati d'ogni paese si dedicarono a tempo pieno allo studio del fenomeno, che veramente metteva tutti in imbarazzo, per la stranezza di certe osservazioni. Le balene, mammiferi marini, e i bovini svizzeri ed olandesi creavano grossi problemi a questi primi osservatori perchè sembravano immuni dal fenomeno e non se ne capiva il perchè, per quanto si studiasse il problema. Quando poi si cominciò ad accettare la teoria che doveva trattarsi di un fattore diffuso nelle grandi praterie e che non poteva interessare quindi mammiferi stabulati o mammiferi marini, anche gli animali allevati al chiuso in Svizzera e in Olanda cominciarono ad essere colpiti da quest'epidemia di aborti spontanei, rendendo la teoria non più sostenibile, neppure come ipotesi di lavoro. Ed, infatti, non ci volle molto perchè si cominciasse ad osservare lo stesso fenomeno anche nei mammiferi marini.
Gli studiosi con la fantasia più vivida, ascrissero il fenomeno a cause psicologiche e lo misero in rapporto con gli effetti sulla psiche animale del terrore che doveva essere stato causato dai lunghi mesi di buio dovuti alle polveri dell'asteroide che avevano schermato il sole e dalle variazioni meteorologiche create da questo buio, senza badare troppo al fatto che questa spiegazione antropomorfizzava un po' troppo gli animali, attribuendo loro un'improbabile psicolabilità di tipo, più che altro, umano. E poi, perchè questo impatto psicologico avrebbe dovuto risparmiare gli animali non mammiferi?
Poi, però, altri ricercatori descrissero la presenza di varie malformazioni incompatibili con la vita osservate in alcuni di questi feti abortiti e, così, molti accusarono, com'era stato già fatto nel 1994, l'azione pseudo-ormonale di certi prodotti della degradazione naturale dei fertilizzanti più comunemente usati in agricoltura, entrati nella catena alimentare degli animali colpiti, dopo aver inquinato le acque potabili.
Si sa quello che succede nella ricerca scientifica: ogni risposta a vecchi quesiti apre la porta a nuove domande a cui l'umana curiosità cerca di dare altre risposte sempre più precise e ragionevoli e fu così che alcuni studiosi cominciarono ad accorgersi della presenza di alcune anomalie, mai prima osservate, del DNA presente nei cromosomi X, sia degli ovociti che degli spermatozoi.
Quando, però, esami statistici più accurati mostrarono che le malformazioni osservate in alcuni dei feti abortiti avevano esattamente la stessa frequenza statistica osservata prima dell'arrivo dell'asteroide nelle nascite naturali e già a suo tempo descritta nei trattati veterinari classici, si dovette escludere l'ipotesi che fossero queste disgenesie a causare la misteriosa epidemia di aborti.
Ben presto, anche la teoria della responsabilità dell'inquinamento da fertilizzanti o da polluzione industriale fu abbandonata, quando si osservò che non c'erano significative differenze statistiche fra quello che succedeva nel DNA di popolazioni animali viventi in zone ad agricoltura intensiva o ad alta industrializzazione e quello che si osservava invece in mandrie di territori "puliti" e qualcuno cominciò a postulare che le variazioni genetiche osservate fossero state, invece, prodotte da un fattore uniformemente diffusosi, all'improvviso e contemporaneamente, nell'intero pianeta.
Da lì a formulare il sospetto che le sequenze di aminoacidi contenute nella polvere dell'asteroide fossero in qualche modo responsabili di tutto, il passo fu breve e gli studi in questa nuova direzione furono ovunque intensificati. Si trovò così che gli aminoacidi extraterrestri o aminoacidi alieni, come furono subito denominati nel gergo degli addetti ai lavori, erano ormai non solo entrati a far parte della catena alimentare, ma erano divenuti parte integrante degli organismi dei mammiferi senza aver subito variazioni chimiche di sorta, cioè, in parole povere, senza essere stati digeriti prima di essere assimilati.
Ripetute ricerche mostrarono che queste catene di aminoacidi extraterrestri non partecipavano attivamente ai processi biochimici degli organismi animali, pur essendo divenuti onnipresenti in tutte le cellule, come ospiti inattivi.
Quando però qualcuno cominciò a chiedersi se per caso le curiose alterazioni del cromosoma X, osservate ultimamente da diversi ricercatori e mai constatate in precedenza, non fossero correlate alla presenza di questi aminoacidi extraterrestri e si mise a studiare la questione, allora risultò evidente che, nel cromosoma X, questi aminoacidi alieni divenivano parte del DNA locale e, poco prima della metà del tempo normalmente intercorrente fra il momento della fertilizzazione e il momento fisiologico previsto per il parto, cominciavano ad impartire alle cellule messaggi evolutivi che conducevano l'uovo a produrre gli impulsi ormonali necessari a provocare l'apertura del parto, anche se il prodotto del concepimento era ancora assolutamente incapace di vita autonoma.
Questo spiegò abbastanza razionalmente la diffusione non contemporanea dell'epidemia di aborti in tutte le aree geografiche. Era logico che, dove gli animali erano selvatici e dove venivano allevati allo stato brado, come nella pampa argentina e nelle pianure del Botswana, la loro esposizione alle polveri contenenti gli aminoacidi alieni era iniziata più presto, più direttamente ed era durata più a lungo, mentre animali stabulati o viventi nel mare, erano stati raggiunti solo più tardi dalle stesse polveri e in concentrazioni probabilmente minori.
Naturalmente i risultati di queste ricerche non furono resi subito di pubblico dominio, sia perchè avevano bisogno di ulteriori conferme e sia per evitare un generalizzato panico, ma vaste somme di danaro vennero investite da vari enti (ed anche da stati) in ricerche tendenti a verificare i sospetti ed a trovare eventualmente un antidoto che cancellasse il messaggio di autodistruzione scritto nel DNA del cromosoma X dagli aminoacidi alieni, che stava facendo scomparire animali il cui allevamento aveva enormi implicazioni economiche e alimentari.
Per la verità, all'inizio, quando la cosa non era ancora generalizzata e i paesi industrializzati avevano messo a punto sistemi per produrre tempestivamente proteine animali alternative per scopi nutrizionali (da pennuti e da pesci), furono molti i capi di governo che sottovalutarono il problema, pensando che non c'era proprio nessuna fretta di stanziare le ingenti somme che, si prevedeva, dovessero essere necessarie per sviluppare un qualche antidoto che permettesse di far nuovamente partorire gli animali mammiferi utili all'umanità.
Questo non fermò però la ricerca scientifica, che anzi diventava sempre più fervida in tutto il mondo ed ogni giorno portava a scoperte sempre più interessanti. Si osservò, per esempio, che, all'interno dello stesso ovaio, le uova contaminate raggiungevano la maturità e, quindi, la fecondabilità, molto prima delle poche uova non contaminate e che, anzi, queste uova contaminate esercitavano un potere inibente sullo sviluppo e la maturazione delle uova non contaminate contigue, che, quindi, venivano riassorbite prima di poter essere utilizzate.
In breve tempo, si dovette constatare che la curva di riduzione delle uova non contaminate e la curva di riduzione dei parti regolari nei bovini, che a causa del loro valore economico erano stati gli animali più studiati, erano parallele ed entrambe tendenti a zero.
Intanto, a causa di tutti questi fenomeni, la disponibilità di proteine animali per scopi alimentari aveva cominciato a scemare, specie là dove le condizioni economiche ed organizzative non erano state sufficienti al tempestivo sviluppo della pollicoltura e della piscicoltura su vasta scala e questo aveva causato grossi problemi di denutrizione nei paesi meno industrializzati e meno sviluppati, con ripercussioni economico-sociali, talvolta devastanti, dovute, in tutto il mondo, alla fine dell'attività degli allevatori di bovini, ovini, equini e caprini. Questi allevatori non avevano l'elasticità mentale necessaria per essere riciclati in avicultori e piscicultori, anche perchè non tutte le aree prima dedicate all'allevamento del bestiame da carne rossa potevano essere utilizzate per l'allevamento di uccelli e di pesci da destinare a scopi alimentari. Qua e là, nel Terzo Mondo, ci furono vere e proprie sollevazioni, seguite da repressioni, spesso molto violente.
All'inizio, quando non era ancora chiara l'irreversibilità del fenomeno, questo aveva finito per stimolare nei veterinari l'interesse a mettere a punto tecniche per l'identificazione rapida di cellule germinali animali non contaminate, che venivano usate per la fertilizzazione in vitro ed il successivo impianto nell'utero di una madre ospite.
Ben presto però anche queste nuove tecniche di scelta non poterono essere più usate, quando si osservò con raccapriccio che la quantità di elementi seminali non contaminati si stava avvicinando a zero e, siccome la curva descrivente questo fenomeno raggiunse lo zero abbastanza presto, le tecniche di riconoscimento degli elementi seminali sani divennero inutilizzabili da parte dei veterinari.
La storia degli uomini, si sa, si muove per sentieri imprevedibili ed anche in questo caso avvenne qualcosa di peculiare, curioso, inaspettato e inimmaginabile, quando il Principe di Galles, il Maharajah di Jodhpur, il Sultano di Brunei, stilisti come Ralph Lauren e tanti altri appassionati giocatori di polo in tutto il mondo, restii all'idea di dover abbandonare il loro sport preferito a causa dell'imminente estinzione, tra gli altri mammiferi, anche dei cavalli, misero a disposizione dell'Università di Cordoba, in Argentina, grosse somme per studi mirati a preservare l'allevamento degli equini, studi che avrebbero potuto essere utilizzati, quindi, anche a vantaggio dell'allevamento di altri mammiferi domestici in via di estinzione.
L'idea dei grossi guadagni economici possibili a chiunque avesse trovato metodi per salvare l'industria dell'allevamento degli animali da carni rosse, mise le ali all'immaginazione dei ricercatori e provocò una collaborazione planetaria, così che, in relativamente poco tempo, studiosi degli istituti di genetica sperimentale e di fertilizzazione artificiale delle facoltà di veterinaria delle Università di Cordoba, di Zurigo e di Parma, in collaborazione col Dipartimento di programmazione della Facoltà di scienze del computer dell'Università di San Francisco, misero a punto un utero artificiale, programmato a non obbedire ai patologici stimoli ormonali inviati dal feto contaminato nel suo corredo genetico dagli aminoacidi alieni, che facevano scatenare anzitempo il processo del parto. Questo, una volta risolto il problema della formulazione di un latte artificiale adatto per ciascun animale neonato e la messa a punto di mammelle artificiali usabili industrialmente, garantì ai giocatori di polo le loro cavalcature e all'umanità la disponibilità delle carni alimentari a cui era abituata da secoli, anche se l'alimentazione artificiale degli animali neonati provocò, evidentemente, una lievitazione dei costi di allevamento.
Per un certo periodo, tutti sembrarono rasserenati. I veterinari producevano tutti gli animali necessari all'umanità che, non appena standardizzate le procedure e i metodi, ebbero un costo sempre più favorevole, perchè il metodo della fertilizzazione in vitro e della successiva gravidanza in un utero artificiale permetteva non solo di evitare soggetti malati, ma di selezionare individui sempre migliori.
Le vere vittime furono i mammiferi selvatici perchè nessuno si sobbarcò in tempo utile l'onere di sostenere le immense spese eventualmente necessarie per salvare, per esempio, gli elefanti o i leoni, anche se il Principe Bernardo d'Olanda ed il World Wildlife Fund si batterono, con dedizione instancabile, a favore della fauna selvatica, riuscendo a salvare qualche coppia di quasi tutte le speci di mammiferi selvatici e ad assicurare pochi campioni per i vari giardini zoologici, nella speranza di riuscire, un giorno, a riportare questi animali nel loro habitat naturale. Però, le immense mandrie, per esempio, di bufali, di gazzelle e di elefanti che avevano affascinato gli innamorati dell'Africa, divennero, in breve tempo, meri ricordi di un favoloso passato.
*
Un paio d'anni dopo che le bistecche erano tornate sulle tavole di chi le desiderava e quando l'umanità aveva cominciato a dimenticare il passato ed a considerare del tutto normali i nuovi sistemi di allevamento del bestiame, si cominciò ad osservare un aumento degli aborti anche nella popolazione umana.
All'inizio, il fenomeno si presentò, con una certa perentorietà, soltanto nei paesi in via di sviluppo, forse perchè queste popolazioni, vivevano in gran parte in abitazioni non molto schermanti e, quindi, erano state più esposte alla polvere di asteroide rispetto a chi viveva negli edifici di cemento a più piani e con aria condizionata e filtrata dei paesi industrializzati, sicchè, egoisticamente e cinicamente, molti capi di governo dei paesi ricchi fecero spallucce e pensarono, nel segreto delle loro menti perverse, che una diminuzione di popolazione nel terzo mondo era per loro quasi una manna.
Uno si sarebbe aspettato una reazione del mondo scientifico un po' più rapida, ma questo avrebbe significato uno scambio di esperienze fra le scienze veterinarie e le scienze mediche di un'intensità che, paradossalmente, non s'era, invece, mai verificata. E poi, il processo, nelle donne, si iniziò con un'evoluzione assai più lenta di quella osservata negli animali e quindi assai meno evidente.
Poi però il fenomeno, definito dalla stampa quotidiana con l'espressione di aborto spaziale, che ebbe subito fortuna fra i giornalisti di tutto il mondo, si diffuse ovunque, anche nei paesi industrializzati, con un moto uniformemente accelerato, e, nel giro di pochi anni, le nascite erano diventate episodi rarissimi in qualsiasi paese ed area geografica, sicchè, continuando così, si doveva prevedere in breve tempo la fine biologica dell'umanità.
Diversi opinionisti si erano espressi in favore dell'immediato stanziamento di fondi pubblici per trasferire alla razza umana le esperienze fatte dai veterinari col mondo animale, ma questo aveva urtato violentemente contro l'opposizione organizzata delle chiese.
Queste, non negavano certo il problema ed, anzi, chiedevano insistentemente che i governi stanziassero generosi fondi per la ricerca e la messa a punto di un farmaco che contrastasse l'azione con cui gli aminoacidi alieni sovvertivano la fisiologia del parto.
Papa Wojtyla dette anzi l'esempio, mettendo a disposizione della Facoltà di medicina dell'Università cattolica una notevole somma di denaro per sovvenzionare queste ricerche e destinando a queste, in futuro, la metà del ricavato dell'Obolo di San Pietro, ciò che fece veramente scalpore, perché non s’era mai visto prima che
L'esempio fu presto seguito da numerosi stati, che misero i cervelli più fini delle loro facoltà mediche e biologiche al lavoro.
Il Papa mostrò ulteriormente la sua preoccupazione e sollecitudine, quando ordinò che, in tutte le chiese del mondo, fossero organizzate preghiere pubbliche e chiese a tutti i sacerdoti di celebrare messa secondo le sue intenzioni, che erano poi quelle di chiedere a Dio che guidasse nella giusta direzione gli scienziati impegnati nelle ricerche sull'antidoto per gli aminoacidi alieni.
Il mondo scientifico rispose alle generose richieste con altrettanta diligenza. Furono aumentati i canali di comunicazione fra le varie scuole e si convocarono diversi congressi internazionali per mettere a punto le strategie della ricerca e confrontare i risultati.
Era ovvio che, finchè non si fosse capito in che modo gli aminoacidi alieni interagivano con le proteine del cromosoma X dei mammiferi, non era neppure possibile pensare a come contrastarne la peculiare azione parafisiologica, che portava feti perfettamente normali ad essere espulsi anzitempo dall'utero di donne, anche loro perfettamente sane.
Purtroppo, però, il tempo passava senza che da nessuna parte si osservasse un progresso purchessia e, nel giro di meno di un anno, in tutto il mondo, le nascite umane avevano veramente raggiunto un pericoloso minimo.
Gli esperti di statistica, da diversi mesi, spronavano i biologi e i medici impegnati nelle ricerche sugli aminoacidi alieni, preoccupati dal fatto che le curve di riduzione della natalità umana preparate dalle autorità dei vari stati avevano già raggiunto in molti paesi un punto di non ritorno.
I ricercatori incontravano grosse difficoltà, perchè, per le loro ricerche, potevano usufruire soltanto di feti umani normalmente abortiti, stante l'illiceità morale più volte riaffermata dalla Chiesa, di fecondare uova umane in vitro, specie se solo per ragioni di ricerca, e ben poche erano le coppie che, avendo perso ogni speranza, non avessero deciso di evitare ad ogni costo gravidanze destinate a un sicuro fallimento.
Dai pulpiti, i sacerdoti non smettevano di tuonare contro l'uso degli anticoncezionali, perchè, dicevano, la legge di Dio è universale ed eterna e non può essere interpretata in funzione delle contingenze. Oltre tutto, quei feti legittimamente concepiti e successivamente abortiti potevano essere usati dai ricercatori per trovare una cura per l'aborto spaziale e chi si rifiutava di permettere il concepimento perchè, tanto, sapeva che il feto non sarebbe sopravvissuto, compiva in più il peccato di impedire che la scienza trovasse il modo per risolvere il problema. Ma questo non aiutava i ricercatori, perchè la gente preferiva seguire i propri impulsi e non le prediche dai pulpiti.
Qualcuno espresse il parere che si dovesse cercare di applicare anche all'umanità le metodiche dell'utero artificiale messe a punto dai veterinari, ma ciò venne immediatamente dichiarato illecito dalla Chiesa, semplicemente perchè era da considerarsi illecita qualsiasi fertilizzazione dell'uovo umano in vitro. Semmai, secondo qualche teologo particolarmente innovatore, si poteva considerare lecito il rimuovere dal grembo della madre un embrione oggettivamente a rischio per farlo ulteriormente sviluppare in laboratorio, una cosa facile a dirsi, ma virtualmente impossibile a farsi in pratica, per l'impossibilità di sostituire all'improvviso la placenta naturale con una artificiale.
Altri teologi più rigorosi, addirittura, si chiedevano chi fossimo noi umani per opporci alla volontà di Dio, se Dio aveva deciso di far finire la razza umana.
Il papa, evidentemente martoriato nel suo spirito dall'enormità di questi problemi alla cui soluzione teorica nè Sant'Agostino, nè San Tommaso, nè la precedente tradizione della Chiesa potevano dare alcun contributo, s'era chiuso in un preoccupato mutismo, passando, disperato, intere giornate in fervida preghiera. A chi gli proponeva di rendere legittima la fecondazione in vitro, egli rispondeva che, questo ripensamento avrebbe avuto conseguenze dottrinarie disastrose perchè avrebbe contraddetto il dogma dell'infallibilità del magistero pontificio.
Naturalmente diversi opinionisti di scuola laica, su vari giornali e riviste, si dichiararono favorevoli alla proposta di provare a far nascere anche gli umani in uteri artificiali, ma furono subito aspramente censurati dal Cardinal Ratzinger, custode rigoroso dell'ortodossia cattolica, la cui autorità veniva ormai accettata, in questo campo, anche da varie confessioni protestanti.
In Italia poi, il governo, obbligato dalla sparuta maggioranza arroccata intorno a Berlusconi, che aveva un disperato bisogno dell'appoggio vaticano per sopravvivere alle imminenti elezioni, aveva immediatamente emanato un decreto legge, subito confermato dal parlamento, per vietare applicazioni sugli umani delle metodiche veterinarie dell'utero artificiale.
Nel frattempo le nascite di bambini, nell'intero pianeta, erano praticamente cessate ed una donna con un bambino in braccio, era diventata, in tutto il mondo, uno spettacolo del tutto inconsueto.
A questo punto, ricercatori dell'Università di Roma, osarono, in gran segreto, il passo "proibito", ma ormai inevitabile, e, con la preziosa collaborazione dei veterinari, misero a punto un utero artificiale adatto allo sviluppo di embrioni umani.
Il loro lavoro fu, in fondo, abbastanza facile, perchè essi non dovettero fare altro che copiare quello che era già stato fatto dai veterinari ed adattarlo all'uomo.
Le uova venivano prelevate da donne fertili per via laparoscopica ed esaminate con cura per poter scegliere le più promettenti.
Un analogo procedimento di scelta veniva effettuato sugli spermatozoi ottenuti da donatori volontari.
Naturalmente venivano eliminati tutti quegli elementi germinali che sembravano contenere alterazioni genetiche capaci di produrre una delle tante note malattie ereditarie e, ben presto, si trovò il mezzo di escludere da questi uteri artificiali ogni rischio di contaminazione da AIDS, anche prelevando uova e spermatozoi da donatori potenzialmente infetti.
I primi esperimenti vennero effettuati in totale segreto, senza informare nè i circoli scientifici internazionali, nè, tanto meno, la stampa, allo scopo di evitare le prevedibili critiche degli ambienti religiosi e le censure, anche penali, da parte dello stato, specie in Italia, dove Berlusconi e Forza Italia avevano, come già detto, tutto l'interesse a corteggiare le forze cattoliche e, quindi, si erano adeguati senza discutere, alle vedute del Vaticano, di condanna netta e senza appello contro qualsiasi intromissione della tecnologia nei processi della riproduzione umana.
Progetti che si fondano sul lavoro organizzato e coordinato di un grande numero di persone, si sa, sono sempre difficili da tenersi nascosti a lungo. Figuriamoci quindi quello che doveva succedere ad un progetto tendente a produrre bambini, in un mondo in cui, ormai, la nascita di un bambino aveva cominciato a fare notizia, e notizia da prima pagina, sicchè, se una giovane donna veniva avvistata in pubblico con un neonato in braccio, non sfuggiva a torme di giornalisti, che impazzivano per un'intervista. Così, per tutta Roma, circolavano le voci più fantasiose su quello che succedeva nella Clinica ostetrica e ginecologica della Sapienza, nell'ambito della quale, sembrava che si fossero tornati a vedere, ultimamente, dei neonati, ciò che costituiva un enorme cambiamento rispetto all'assoluta stasi dei mesi precedenti.
*
Giorgio Malini era un giornalista intelligente e con una discreta educazione biologica di base. Suo padre era stato uno dei più brillanti traumatologi negli ospedali romani e Giorgio si apprestava a seguirne le orme. Però, mentre frequentava il terzo anno di medicina e chirurgia alla Sapienza, suo padre morì per un'infezione resa incurabile da un'esplosiva forma di AIDS che egli aveva contratto qualche tempo prima quando, operando d'urgenza un giovane tossicodipendente che aveva subito lesioni gravissime in un incidente automobilistico, la punta di trapano che stava usando per effettuare le osteosintesi necessarie alla ricostruzione anatomica di un acetabolo malamente fratturato si ruppe improvvisamente ed il moncone rimasto attaccato al trapano gli lacerò profondamente la mano sinistra con cui teneva lo strumento guidapunte. Il paziente risultò HIV positivo e la malattia nel chirurgo ebbe un decorso particolarmente tumultuoso. Il giorno stesso del funerale, la madre di Giorgio, disperata, si fece promettere dal figlio che avrebbe abbandonato gli studi medici e, così, Giorgio si era laureato in giornalismo.
Tornato da appena qualche giorno in sede, dopo un lungo servizio da inviato speciale nel Caucaso in rivolta contro la Russia, mentre sfogliava nell'archivio del suo giornale vecchie raccolte di quotidiani, alla ricerca di notizie d'epoca sulle deportazioni delle popolazioni caucasiche effettuate da Stalin dopo la seconda guerra mondiale per punire chi, secondo lui, aveva simpatizzato con gli invasori italo-tedeschi, s'era imbattuto in una strana notizia. Secondo questa, un certo Prof. Marcucci, dell'Università di Bologna, all'inizio degli anni 50, aveva ottenuto la fecondazione in vitro di un uovo umano, che aveva cominciato regolarmente a proliferare. Così apprese che, naturalmente, gli ambienti cosiddetti per bene del tempo, accusarono subito il Prof. Marcucci non solo di immoralità, ma addirittura di empietà, sicchè, in brevissimo tempo, il pover'uomo venne scientificamente e moralmente distrutto, per essere poi licenziato in tronco, per indegnità, dalla sua università e scomparire nel dimenticatoio. Considerando l'enorme anticipo con cui questo Prof. Marcucci si era occupato di fecondazione umana in vitro, Giorgio Malini, scritti i suoi pezzi sui problemi delle popolazioni caucasiche in rivolta, aveva chiesto un'intervista al Direttore della Clinica ostetrica e ginecologica dell'Università di Roma, con l'idea di preparare un articolo di storia della medicina per la pagina culturale del suo giornale.
Arrivato in Clinica, Giorgio fu sorpreso di trovare, assiepati all'ingresso, diversi suoi colleghi che esplosero subito in violente proteste, quando videro che il portiere si accingeva a farlo entrare in clinica, mentre loro venivano tenuti rigorosamente fuori della porta.
Naturalmente la cosa incuriosì Giorgio Malini, che si fermò a parlare con i suoi colleghi e così apprese che questi erano lì per indagare sulle voci secondo le quali, in quella clinica, si facevano nascere bambini che arrivavano a maturazione in uteri artificiali e, così, Giorgio, chiarito il motivo dell'intervista che si accingeva a fare al Direttore della clinica, promise ai suoi colleghi di fare domande anche in tema di gestazione artificiale, per poi informarli.
Entrato nell'androne della clinica, incontrò una giovane donna che, dopo solo un breve momento di esitazione, riconobbe come una sua vecchia compagna di scuola e, ricordandosi improvvisamente della gran cotta che si era presa per lei al liceo, trovò naturale salutarla e scambiarci qualche chiacchiera, che rapidamente li fece passare ai modi della loro antica complicità. Lei era figlia di un ufficiale di carriera e, quando suo padre fu trasferito da Roma in Friuli, per assumere il comando di un reggimento di stanza vicino al confine con l'allora Jugoslavia, la lontananza fisica si incaricò di interrompere i loro rapporti. Si scambiarono tutte quelle poche frasi fatte che vecchie conoscenze usano dirsi in un breve, fortuito e improvviso incontro e, lì per lì, Giorgio neppure osservò il fatto che, quando chiese alla giovane donna come mai si trovasse da quelle parti, questa gli dette una risposta del tutto evasiva e inconcludente, nettamente in contrasto con la precisione delle sue risposte alle precedenti domande su comuni conoscenze. "Probabilmente", pensò Giorgio, "ha qualche malanno di cui non vuole parlare con me, come ha tutto il diritto di fare. Però, accidenti che bella ragazza che s'è fatta", continuò a pensare, voltandosi a guardarla mentre lei si avviava verso l'uscita della Clinica e ricordandosi ancora della sua cotta giovanile, con un rinnovato senso di nostalgia, che non mancò di stupirlo piacevolmente. Nessuna meraviglia quindi se il suo primo pensiero fu un fortissimo desiderio di rivederla presto, dicendosi che, se era rimasta intelligente e viva come ai tempi del liceo, doveva sicuramente valere la pena riallacciare i vecchi rapporti. Meno male, pensò, che si erano scambiati i numeri del telefono e i rispettivi indirizzi.
Poi Giorgio fu ricevuto dal Direttore della Clinica, che, per prima cosa, manifestò la sua curiosità per il cognome del giornalista e, quando apprese che sì, Giorgio era proprio il figlio del famoso chirurgo, lo abbracciò con trasporto perchè era stato un grande amico di suo padre.
Questo mise naturalmente i rapporti tra i due uomini su un piano non più formale, ma di immediata familiarità.
Certo che il Professore si ricordava dell'episodio di Bologna! Allora era studente universitario. Ma non sapeva dire che cosa fosse accaduto del geniale Prof. Marcucci, che sembrava sparito nel nulla, dopo essere stato licenziato dall'Università e radiato dall'albo. Aveva sentito dire che se n'era andato a lavorare in un paese dell'Africa, forse nell'allora Congo belga, ma non ne era per niente sicuro. Espose, però, l'opinione che la tecnologia del tempo non fosse ancora adeguata per impiantare con successo un uovo fecondato in vitro nell'utero materno e farlo sviluppare.
A questo punto, Giorgio Malini fece la domanda fatale: "Professore, ma è vero che nella sua clinica avete messo a punto un utero artificiale in cui portate alla nascita uova umane fecondate in vitro?"
A quella domanda, il professore rimase silenzioso e assorto per un lungo lasso di tempo. Poi, tirando fuori le parole a fatica, quasi cercandole una dopo l'altra, rispose: "Lei è il figlio del mio più caro amico ed il suo viso, così rassomigliante a quello di suo padre, mi riporta indietro ad anni spensierati e felici. Lo sa che è stato suo padre a presentarmi alla ragazza che poi è diventata mia moglie? A proposito, ora le telefono per dirle che lei, stasera, sarà a cena da noi. Chissà come sarà felice di conoscerla! Anzi no, non le dico affatto chi è lei e così le faremo una sorpresa.
Lei mi chiede se è vero che stiamo facendo nascere dei bambini da uteri artificiali. È un segreto che custodiamo con gelosia estrema, perchè abbiamo il terrore di fare la fine del Professor Marcucci, ma è un segreto che non può durare, perchè le donne che si portano a casa questi bambini appaiono ai vicini improvvisamente madri senza essere mai essere state viste gravide e qualcuno s'è incominciato a chiedere come mai nessuna di queste nuove madri allatta il figlio".
"Perchè, Professore, avete tenuto questa notizia così segreta? In fondo state garantendo la sopravvivenza del genere umano".
"Figlio mio, lei non ha idea di che cosa sia capace l'intolleranza religiosa, specie se usata per perseguire scopi di mero potere politico. Io già sento le accuse: sta scritto che la donna deve partorire nel dolore e questi medici blasfemi e senza Dio fanno fare figli alle donne spingendo un bottone! Scelgono le uova e scelgono gli spermatozoi uno per uno, arrogandosi le prerogative di Dio, e poi, magari, li mescolano insieme per cui, non si potrà mai sapere con sicurezza chi è la madre e chi è il padre. Questa è una disgustosa manipolazione della volontà di Dio... e via su questo tono. Saremmo distrutti in brevissimo tempo. Crede forse che il fondamentalismo intollerante sia una prerogativa soltanto dei musulmani?"
"Ma, scusi, Professore, chi potrebbe distruggervi? Non siamo più ai tempi di Pio XII, quando qualsiasi governo italiano, doveva fare i conti, prima di prendere qualsiasi decisione, con che cosa desiderava il Vaticano. Oggi la gerarchia cattolica non ha più il potere che aveva ai tempi del Professor Marcucci. E poi, mi pare che abbiamo poco da scegliere. O si fa così o l'umanità cessa di esistere a meno che non avvenga un miracolo e questi aminoacidi alieni vengano finalmente degradati o resi innocui, anche se, di questo, mi pare che non si veda alcun accenno".
"Lei, caro Giorgio,... posso chiamarla così?"
"Ma certamente, Professore!"
"Lei non ha idea di che cosa può succedere. Questi pezzenti che si sono raccolti sia intorno a Berlusconi e sia intorno agli avversari di questo, venderebbero l'anima al diavolo, come si diceva un tempo, per un sostegno ufficiale del Vaticano alle prossime elezioni. Questa gente è pronta a qualsiasi forma di illiberalità, se crede che questa possa compiacere la gerarchia cattolica, perchè spera di essere aiutata dal Vaticano a conquistarsi la maggioranza in parlamento. Senza questo aiuto non riuscirebbero a conservarsi il potere, vista l'inefficienza, l'incompetenza e la disonestà ideologica che hanno dimostrato di avere, da quando hanno preso il posto della gente nuova che, invece, tutti ci aspettavamo emergesse, dopo gli anni di fango evidenziati dal meraviglioso lavoro dei giudici di Mani Pulite e dopo il recente secondo ribaltone provocato dalla Lega e facilitato, questa volta, dall’incomprensibile atteggiamento di Rifondazione Comunista. Questi hanno vinto le prime elezioni maggioritarie seducendo gli italiani, che erano in preda ad un giustificatissimo, ma accecante senso di improvviso schifo per i vecchi partiti, dopo Tangentopoli. Poi, però, gli italiani si accorsero che Berlusconi era entrato in politica soltanto allo scopo di difendere le sue personali ricchezze ed i suoi redditi parassitari e per salvarsi dai debiti che la sua Fininvest aveva accumulato; si accorsero che Berlusconi non era quel grande imprenditore che lui voleva far credere di essere, ma era solo uno spregiudicato speculatore che si è arricchito in pochissimo tempo soprattutto per via della sua amicizia col re dei corruttori, Craxi, che gli dette, certo non in regalo, i canali televisivi che gli assicurano le sue rendite parassitarie e non si sono fatti incantare di nuovo alle elezioni del 1996. Poi c’è stato il secondo ribaltone dovuto all’incapacità di Prodi di rendersi conto della necessità di una vera ed effettiva modernizzazione che desse più efficienza all’amministrazione dello stato e così le redini del governo hanno ancora cambiato mano, però è difficile che gli italiani si faranno incantare ancora, alle prossime elezioni, dalla stessa sirena. Questo spiega il perchè della sua corte spietata al Vaticano e del terrore di certi politici per le elezioni di fine millennio. Lo sa che qualcuno sta promettendo, in sordina, in cambio dell'appoggio cattolico, di abolire la legge sul divorzio e di ripenalizzare qualunque forma di aborto?
Le voci del nostro lavoro sono, naturalmente, arrivate anche al Ministero per la ricerca scientifica ed il ministro, proprio ieri, mi ha telefonato non per informarsi se fossero vere e dei risultati eventualmente raggiunti, ma per dirmi che, ove ci fosse qualcosa di vero, manderebbe la polizia a sigillare e poi distruggere i nostri laboratori. Con buona pace delle anime che, secondo le accuse di certi teologi, noi avremmo sacrilegamente create, come se noi creassimo la vita, invece che garantire alla vita creata da Dio le condizioni di cui essa, per disegno del Padre Eterno, ha bisogno per svilupparsi.
Le ho parlato francamente in nome dell'amicizia che mi legava a suo padre, un'amicizia che, sono sicuro, lei non vorrà tradire e poi perchè, forse, lei, da giornalista, potrebbe aiutarci. Io credo infatti che la stampa indipendente ed equilibrata ha, forse, i mezzi per creare una corrente d'opinione popolare in favore del nostro lavoro, prima che la notizia sia altrimenti sbattuta in prima pagina da giornali di parte e per scopi strumentali, usando le parole sbagliate, con conseguenze che sarebbero addirittura disastrose, non soltanto per le nostre ricerche e per le nostre persone, il che non conterebbe molto, ma per l'intera umanità".
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La cena a casa del professore fu interessante.
Giorgio si commosse nel constatare quanto grandi fossero ancora il ricordo ed il rispetto che il professore e la moglie conservavano di suo padre, a cui dovevano essere stati legati da una amicizia veramente profonda e nobile. Ascoltò addirittura rapito i racconti di episodi della giovinezza di suo padre che egli ignorava totalmente e che davano al ricordo che egli aveva di lui, come di un uomo sempre serio, intimamente buono e profondamente onesto, anche se un po' ruvido nell'esternare i suoi affetti, un colore di sorridente e tollerante umanità, che gli rinnovò il dolore per averlo perso così presto e senza ancora conoscerlo a fondo, proprio mentre sognava di lavorarci insieme e imparare da lui il mestiere in cui lui era stato così grande.
Ben presto, però, la loro conversazione si focalizzò sul problema del secolo.
Il professore gli narrò la storia degli scontri dottrinari che avevano accompagnato l'evolversi e l'approfondirsi delle cognizioni sulla biologia degli aminoacidi alieni, fra, da una parte, i ricercatori scientifici, per i quali l'interesse precipuo era di capire i meccanismi con cui questi aminoacidi interagivano con la materia vivente, in modo da poterli poi influenzare e, dall'altra, i teologi, per i quali, invece, l'interesse precipuo era di preservare l’idea dell’infallibilità della Chiesa, e, quindi, valutare per questo scopo le nuove cognizioni alla luce di precetti teorici dettati in tempi in cui il problema dell'imminente scomparsa dell'umanità non c'era, nè c'era l'aborto spaziale e l'uomo non sapeva nulla dei meccanismi della riproduzione.
Le diverse direzioni degli interessi culturali di questi due mondi si posero in rotta di collisione nel momento stesso in cui, dagli studi teorici, si passò ad applicazioni pratiche, con continui aggiustamenti di tiro da parte dei teologi, allo scopo di preservare i loro luoghi comuni, man mano che l'acquisizione di nuove conoscenze sulla biologia degli aminoacidi alieni dettava ai medici differenti tecniche.
Infatti, quando il fenomeno cominciò a manifestarsi, i teologi non ebbero nulla da ridire, perchè la teologia morale considerava lecite le pratiche di evacuazione dall'utero materno del prodotto del concepimento in casi di aborto spontaneo e non reversibile in atto.
Poi, la responsabilità degli aminoacidi alieni nel causare questa fioritura di aborti spontanei venne finalmente riconosciuta ed i medici svilupparono tecniche mediante le quali sceglievano uova e spermatozoi non contaminati, si servivano di questi elementi sani per una fecondazione in vitro e impiantavano l'uovo fecondato nell'utero della madre, perchè si era visto che queste gravidanze andavano a termine con la frequenza solita. Naturalmente c'erano dei problemi, perchè, non è detto che tutte le uova impiantate nell'utero procedessero a svilupparsi e così, diverse scuole, ne impiantavano più d'uno, per poi rimuovere le uova eventualmente sviluppantisi in eccesso.
Prontamente i teologi sentenziarono l'illiceità per principio della fecondazione in vitro e definirono la procedura di rimozione delle uova annidatesi in eccesso come un deliberato assassinio multiplo. Oltre tutto, per alcuni, era da considerarsi illecito anche scegliere elemento da elemento, perchè solo Dio poteva stabilire chi doveva nascere e chi no e perchè la fecondazione, per la Chiesa, può lecitamente avvenire soltanto mediante la naturale coabitazione di un uomo e di una donna uniti dal vincolo sacro del matrimonio, perchè sta scritto che marito e moglie saranno una sola carne.
Alcune scuole mediche cercarono di aggirare il problema usando gli elementi germinali di legittimi coniugi, previa aspirazione degli spermatozoi dalla vagina subito dopo la coabitazione, ottenendo la fecondazione di un uovo per volta, non in vitro, ma nel grembo materno, a facendo annidare solo quell'uovo. Questo però creava problemi tecnici enormi, perchè, se permetteva di eliminare gli spermatozoi contaminati, non consentiva di scegliere anche l'uovo, senza complicate e poco sicure manipolazioni endoscopiche per esaminarlo ancora nell'ovaio, manipolazioni da ripetersi continuamente, finchè il caso non faceva maturare un uovo non contaminato dagli aminoacidi alieni. Addirittura, per i teologi di più stretta osservanza, questa diagnostica delle condizioni dell'uovo andava fatta prima che i coniugi si congiungessero e la congiunzione andava rigorosamente evitata nel caso che si fosse voluta escludere la fecondazione di un particolare uovo maturo, perchè trovato contaminato dagli aminoacidi alieni.
Poi però, col diffondersi degli aminoacidi alieni in praticamente tutti gli abitanti del pianeta, si vide che di elementi germinali sani non se ne trovavano più e si era quindi arrivati ad una situazione in cui, fino a che non si fosse trovato il modo di eliminare gli aminoacidi alieni dalle cellule umane o di neutralizzarne l'azione, l'unico modo possibile per fare nascere bambini era quello, inventato dai veterinari, di incubare uova fecondate artificialmente in un utero artificiale, togliendo con ciò ogni qualsiasi ruolo riproduttivo alla sessualità.
E qui i teologi avevano cominciato a trovarsi in difficoltà, ma il consenso della maggioranza fra loro era che l'uomo non può intromettersi nell'ordine naturale delle cose, così come esso è stato predisposto da Dio. Quindi, se Dio vuole la fine del genere umano, non è lecito opporsi alla Sua volontà.
Per la verità, altri teologi, capeggiati dal Prof. Hans Küng, sacerdote cattolico divenuto da diverso tempo scomodo per Roma e, per questo, sospeso a divinis e, facendo uso del Concordato firmato a suo tempo da Hitler e dal cardinale Pacelli, privato del diritto di insegnare teologia cattolica (l'Università di Tubinga gli aveva, però, creato una cattedra ad hoc di teologia ecumenica, per non privarsi di uno studioso di così chiara fama e di così grande umanità) si rifecero alla precedente attitudine della Chiesa nei confronti della medicina curativa. Somministrare medicamenti ad un malato o sottoporlo ad operazioni chirurgiche per eradicare la sua malattia è anche, a suo modo, un opporsi all'ordine naturale delle cose. Perchè dunque considerare illecita questa stessa opposizione, quando invece essa è diretta ad assicurare la continuazione della specie umana?
La risposta del Cardinale Ratzinger non si fece attendere: somministrare medicine o eseguire operazioni serve a mantenere la vita, ma non interferisce con la creazione di questa, cioè con la creazione di un'anima, e questo è un atto riservato solo a Dio.
Altri teologi, a questo punto, cominciarono a discettare sul momento in cui l'anima penetra nel nuovo organismo, un problema teorico con immense implicazioni morali. Infatti, se si fosse accettato il principio che l'anima vivifica il nuovo essere al momento della nascita anzichè al momento del concepimento, non solo l'utero artificiale sarebbe divenuto lecito, ma avrebbero cessato di essere considerate immorali anche le pratiche per ottenere da embrioni coltivati in vitro tessuti da trapianto, il cui uso poteva permettere la cura di malattie gravissime altrimenti intrattabili e il problema dell'aborto avrebbe cessato di avere implicazioni morali. D'altra parte, sostenevano alcuni teologi, se la caratteristica peculiare che distingue l'uomo dall'animale e rende l'uomo responsabile dei suoi atti di fronte a Dio è il libero arbitrio e cioè l'effettiva capacità di opporsi a Dio con un atto autonomo di volontà e, quindi, peccare, il feto non possiede questa caratteristica. Come può opporsi a Dio una massa di protoplasma che non può, autonomamente, neppure respirare, che è privo di esperienze, per cui non può esprimere alcun giudizio? Finchè il feto è nel suo uovo, esso non è capace di peccare neppure potenzialmente, sicchè è verosimile che esso riceva la sua anima, solo nel momento in cui diviene, almeno biologicamente, indipendente e, potenzialmente, capace di prendere decisioni, cioè dopo la sua nascita. Qualche eco di tali principi c'è nelle dottrine più antiche della Chiesa, che riconoscevano l'età della ragione, cioè della responsabilità, solo al compimento del settimo anno e non ammettevano a certi sacramenti, per esempio la cresima, prima di questa età della ragione.
Prontamente queste teorie vennero censurate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, diretta con polso di ferro dal Cardinal Ratzinger, che reiterò l'invito a concentrare le ricerche per sviluppare un antidoto che neutralizzasse gli aminoacidi alieni.
"In Italia," continuò il professore a beneficio del suo ospite, "le cose sono rese ancora più complicate dalla strumentalizzazione che certi politici stanno facendo di questi problemi, perchè, laddove all'estero questi problemi appassionano sia gli studiosi che la gente comune e provocano discussioni spessissimo animose ed aspre, ma quasi sempre oneste, per la ricerca di soluzioni ragionevoli, in Italia tutto viene usato solo per scopi elettoralistici. Non è un mistero che il Polo cosiddetto della Libertà in genere e il movimento Forza Italia di Berlusconi in particolare, ma anche i loro avversari dell’Ulivo, stiano cercando di comperarsi il Vaticano mostrandosi più realisti del re, per il loro disperato bisogno dell'appoggio ufficiale della gerarchia cattolica per vincere le imminenti elezioni politiche. Si tratta di gentucola senza cultura e senza visione, da cui ci si può aspettare di tutto e noi ne stiamo già subendo le pressioni, come le ho già detto a proposito delle minacce che ho ricevuto dal ministero della ricerca scientifica.
Qualcosa di simile sta avvenendo anche negli Stati Uniti, per via dei tanti fondamentalisti cristiani che proliferano nella cosiddetta Bible Belt ed è un guaio grosso, perchè le risorse della ricerca scientifica in quel paese sono sempre state assai maggiori che altrove".
"Professore, che cosa sta succedendo sul versante delle ricerche per un antidoto contro questi aminoacidi alieni?"
"Le ricerche fervono inghiottendo milioni, parte dei quali sarebbero enormemente utili a noi per migliorare il nostro utero artificiale. Anche nella nostra università ci sono valorosi ricercatori impegnati in quella direzione. I risultati sono però, fino ad ora, assolutamente sconfortanti. Sappiamo che questi aminoacidi penetrano nelle nostre cellule non per via digestiva, ma non abbiamo ancora neppure cominciato a capire come lo facciano e perchè essi non esercitino assolutamente alcuna influenza, altro che quando sono nel cromosoma X. Come poi esercitino questa loro influenza rimane un mistero impenetrato. Sappiamo solo che stanno lì e non abbiamo scoperto ancora alcuna interreazione con le proteine circostanti. Qualcuno postula addirittura una chimica o una fisica a noi del tutto sconosciute, eventualmente mediate da radiazioni presenti nel cosmo e di cui non conosciamo ancora niente. Forse, scoprire da dove sia arrivato l'asteroide ci aiuterebbe, ma gli astronomi e gli astrofisici non hanno ancora trovato alcuna utile proposta di soluzione al problema. Temo che ci vorranno anni per fare progressi in questa direzione. Molti di più di quanti non ne abbiamo a disposizione prima di estinguerci come specie, se non accettiamo di riprodurci, nel frattempo, per via extrasessuale".
La conversazione andò avanti per buona parte della nottata e, quando Giorgio si accomiatò dai suoi ospiti, promise che, l'indomani stesso, al giornale, avrebbe parlato, in stretta segretezza, col direttore e con gli altri colleghi più influenti, per vedere che cosa fosse loro possibile fare per sensibilizzare meglio il disinformato pubblico ed aiutare i ricercatori impegnati così duramente a garantire il futuro della specie umana, contro una classe politica così manifestamente in malafede.
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L'indomani, quando Giorgio arrivò al giornale, trovò i suoi colleghi assiepati in capannelli che commentavano un fondo senza firma, apparso sull'Osservatore Romano, in cui, con un evidente riferimento alla Clinica ostetrica dell'Università di Roma, si stigmatizzava l'uso di denaro pubblico in una università statale, per pratiche immorali e illecite, definendo come un vero scandalo il fatto che il governo non aveva ancora fatto nulla per fermare quella vergogna.
Evidentemente la cosa doveva essere stata concertata, perchè, con una contemporaneità almeno sospetta, i ministri della pubblica istruzione e della ricerca scientifica, avendo il governo bisogno in parlamento dell'appoggio dei deputati cattolici (pochi, ma, purtroppo, ancora determinanti), sospesero qualsiasi finanziamento ad istituti che ospitavano ricercatori che si sospettava fossero o fossero stati coinvolti in studi sulla riproduzione extrasessuale e iniziarono procedimenti disciplinari a tappeto contro i più noti specialisti della Clinica ostetrica dell'Università di Roma (e che il principio della libertà accademica e della libertà della ricerca scientifica se ne andasse pure al diavolo!).
Sulla stampa controllata dalle forze al potere e sulle loro stazioni radio e televisive, si iniziò una polemica virulenta e, per lo più ingiusta e non documentata, che soffocò, almeno all'inizio, le voci di giuristi seri, come Rodotà, e confuse sempre di più la cittadinanza.
Però, la concertata guerra delle istituzioni, specialmente diretta contro i ricercatori dell'Università di Roma, scelti perchè la loro posizione centrale e in vista di tutti era l'ideale per chi intendeva dare un esempio generale, sortì un effetto paradosso, perchè rese note ad un pubblico vastissimo le possibilità offerte all'umanità intera dal lavoro di questi ricercatori e consentì al vasto pubblico di capire che, in fondo, quei medici erano solo colpevoli di lavorare per assicurare discendenti alla specie umana. Così, le richieste per mettere in incubazione altri bambini fioccarono da ogni parte del mondo e donazioni anche sostanziose cominciarono ad arrivare da organismi internazionali, da banche e da privati. Note riviste in Italia e all’estero, come Newsweek, L'Espresso e Der Spiegel aprirono pubbliche sottoscrizioni che, in brevissimo tempo, raccolsero somme da capogiro, mentre i cittadini di Roma si organizzavano per picchettare la Clinica ostetrica e difenderla da ogni tentativo di invasione da parte della Polizia, come, secondo voci incontrollate e rumori di piazza, sembrava che il governo fosse sul punto di ordinare.
La misura si dimostrò assolutamente non necessaria perchè, quando al dunque, la stessa polizia e i carabinieri s'erano rifiutati di occupare e chiudere la clinica, come ordinato dal traballante governo di Forza Italia, che cercava tutte le scuse per rimandare le elezioni, sapendo che le avrebbe perse a furor di popolo, non solo per la loro insipienza di governanti, ma anche per la loro presa di posizione contro l'uso dell'utero artificiale. Anzi, il Senato accademico dichiarò solennemente di riappropriarsi dei privilegi di cui le Università godevano nei tempi antichi, proibì l'ingresso nella Città universitaria alle forze dell'ordine dello stato e dichiarò solennemente la sua extraterritorialità, istituendo anche un tribunale interno. Tutti erano perfettamente consapevoli dell'illegittimità di molte di queste misure, ma nessuno si sognò di contestarle, perchè tutti capirono perfettamente che o si rendevano le università totalmente indipendenti dall'esecutivo o questo, prima o poi, ne avrebbe sabotate le ricerche per motivi di bassa strumentalizzazione politica.
Insieme con un fiume di denaro, arrivarono da tutto il mondo civile anche le attrezzature più sofisticate e gli scienziati più capaci, sicchè, le ricerche iniziatesi quasi senza speranza, in gran segreto e con mezzi improvvisati, non solo non subirono interruzioni, ma moltiplicarono i loro scopi e poterono anche estendersi verso campi collaterali e verso direzioni di importanza, magari, soltanto dottrinaria e teorica, non finalizzate cioè ad applicazioni pratiche immediate.
I risultati non si fecero attendere molto. Anzitutto gli embrioni incubati artificialmente che non arrivavano a maturazione erano ormai molti di meno della percentuale di aborti spontanei che si osservavano prima dell'arrivo dell'asteroide, perchè praticamente tutti gli embrioni incubati nell'utero artificiale messo a punto dalla Clinica Ostetrica dell'Università di Roma producevano bambini vitali e in ottima salute.
Si erano poi messe a punto metodiche di monitoraggio continuo dello sviluppo di questi embrioni, che permettevano di intervenire tempestivamente al minimo rischio d'insorgenza di errori di sviluppo o di malattie fetali, anche chirurgicamente, quando necessario, ciò che ridusse virtualmente a zero le malattie congenite e le malformazioni.
Gradualmente si erano trovate efficienti soluzioni ai vari problemi tecnici e tecnologici con cui ci si era scontrati all'inizio, sicchè, ormai, far nascere un bambino da un utero artificiale, secondo gli attuari, veniva a costare assai meno di quanto non fosse costata una gravidanza normale prima dell'arrivo dell'asteroide e questo permetteva di estendere la metodica anche al terzo mondo, una volta che fossero cessate le opposizioni delle chiese e dei politici da strapazzo, attivissimi ad ogni latitudine.
Il giornale di Giorgio cominciò rubriche divulgative sulla riproduzione extrasessuale, come ormai veniva chiamata dagli studiosi la metodica di ottenere figli dall'utero artificiale dopo fertilizzazione in vitro, a beneficio del lettore comune e, ben presto, quasi tutto il resto della stampa seria fece lo stesso. Poco dopo avvenne che gruppi di cittadini tra i più illuminati cominciarono ad organizzarsi in movimenti aventi lo scopo di far accettare dalla legge dello stato la nuova metodica e diffonderla a tutti gli ospedali pubblici.
Giorgio, una volta convinto il suo direttore a sposare la causa del professore vecchio amico di suo padre, si era dedicato alla campagna giornalistica lavorandoci giorno e notte, ed era felice e soddisfatto per i risultati ottenuti, anche se ormai da un paio di mesi, viveva praticamente in redazione, senza aver mai avuto un minuto di tempo per la sua vita privata, per cui, quando ricevette la telefonata di Carla, la sua vecchia ragazza che aveva rivisto, dopo tanti anni, in Clinica ostetrica, si rese improvvisamente conto che si era totalmente dimenticato di mettersi in contatto con lei, come aveva deciso di fare dopo il loro casuale incontro.
"Carletta, come stai? Mi devi scusare se non ho neppure provato a farmi vivo, ma, come puoi immaginare, non ho avuto un minuto libero per me".
"Lo so e ti telefono proprio per questo. Sono felicissima per quello che hai fatto. Sei stato proprio bravo. Siete stati tutti bravissimi".
"Grazie. Non ti sapevo così impegnata. Senti, Carla, perchè non ci vediamo, una di queste sere, se ne hai voglia?"
"Certo, quando vuoi. Anche stasera, se sei libero".
E così si incontrarono e andarono a mangiare sull'Appia Antica, alla Trattoria dell'Archeologia. Mentre entravano, Giorgio si ricordò, improvvisamente, che era lo stesso ristorante dov'era stato fuori con Carla, per la prima volta, quand'erano ancora al liceo. Gli venne un po' da ridere ricordandosi che, quella volta, al momento di pagare il conto, si accorse, con terrore, che non gli bastavano i soldi che aveva con sè. Meno male che il proprietario con cui andò a parlare disperato, senza farsi vedere da Carla, la prese con spirito e gli fece credito fino all'indomani.
"Non ti preoccupare, Giorgio, questa volta ho la mia carta di credito" disse Carla ridendo.
"Ma no, non mi dire che te ne accorgesti! Era la prima volta che uscivo con te e, naturalmente, volevo farmi bello. Porca miseria, che botta che fu quella cena per le mie finanze! Non avevo idea di quanto costasse andare a mangiare in un buon ristorante, ma mi sembrava così bello invitartici. Lo sai che era la casa di vecchi amici di mio padre? La loro famiglia ci ha abitato per quasi trecento anni, prima che il loro nonno la vendesse, poco dopo la prima guerra mondiale, per trasferirsi in città".
Passarono una serata veramente spensierata, ricordando vecchi amici e vecchie storie e, insensibilmente, si sentirono, l'uno indipendentemente dall'altra, sempre più vicini. Sembrava quasi che gli anni che avevano passati senza vedersi nè sentirsi, non fossero esistiti.
"Non ti chiedo che ci facevi in Clinica ostetrica, perchè, dopo tutto quello che è successo da allora, l'ho capito. Ma mi incuriosisce una cosa. Come hai fatto a sapere di quello che facevano?" chiese Carla all'improvviso.
"Mi dispiace di deluderti, ma, quando ci siamo incontrati, ero totalmente all'oscuro di tutto. Ero appena tornato dalla Cecenia e, per scrivere i miei pezzi, avevo avuto bisogno di trovare vecchie notizie riguardanti le massive deportazioni di intere popolazioni fatte da Stalin, dopo la seconda guerra mondiale, con la scusa di punire quelli che, secondo lui, avevano collaborato con le truppe italo-tedesche (invece lo faceva, come forse sai, per neutralizzare e sottomettere le etnie non russe o non russificate). Scartabellando vecchie raccolte di giornali, mi ero imbattuto nella notizia di un certo Professor Marcucci, di Bologna, che, all'inizio degli anni 50, era riuscito a fecondare artificialmente un uovo umano e a farlo incominciare a svilupparsi. Così mi sono interessato alla vicenda umana di quest'uomo, perchè, naturalmente, tutti gli saltarono addosso. Infatti lo cacciarono dall'Università, lo radiarono dall'Ordine dei medici e lo costrinsero ad andarsene dall'Italia, non si sa bene dove, ma pare nell'allora Congo belga. M'era venuto in mente di scriverci un pezzo per la pagina culturale del giornale e così chiesi un'intervista al Direttore della Clinica ostetrica per documentarmi meglio. Lì mi resi conto che stava succedendo qualcosa, anche perchè c'erano dei cronisti, fuori del portone, che mi dissero quello che sapevano delle voci sull’utero artificiale. Quando ho visto il professore, poi, ho scoperto che era stato un caro amico di mio padre e, così, lui mi ha raccontato tutto, impegnandomi, per il momento, al silenzio, ma chiedendomi l'aiuto del giornale. Naturalmente mi detti subito da fare e, non so come, sono riuscito a convincere il direttore del mio giornale. Il resto lo sanno tutti. Tu, piuttosto, che ci facevi lì?"
Carla, che alla menzione della Cecenia aveva visibilmente sussultato, fissò Giorgio negli occhi per un paio di lunghissimi minuti, pieni di silenzio, poi, emesso un profondo sospiro, disse con un filo di voce: "Andavo a vedere il mio bambino".
Poi tacque, mentre, lentamente, i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Si sa, le lacrime delle belle donne sono sempre state la più potente forza motrice conosciuta dall'umanità e Giorgio fu subito travolto da questa forza. Le prese una mano e le fece una lieve carezza sui capelli, senza dire parola, mentre però il suo viso mostrava tutta la sua ansia di sapere, per esserle vicino.
"Vedi, Giorgio, quando partii da Roma per il Friuli mi sembrò di morire a starti lontana. Poi però, si sa, uno trova una ragione per tutto. Come ti ricorderai, non ti ho mai scritto nè ho mai risposto alle tue lettere. Non ho fatto questo perchè non mi interessavi più, come forse tu hai pensato, anche se, come ti ricorderai, quando sono partita, avevamo un po' litigato perchè mi pareva che t'eri messo a fare il cascamorto con quella ragazza della quinta C (come si chiamava? Gianna, mi pare). L'ho fatto perchè m’ero terrorizzata a constatare quanto mi faceva soffrire stare lontano da te ed ho improvvisamente deciso che mai più avrei rischiato di provare ancora una volta quel tipo di dolore. Così ho pensato che era meglio lasciar finire tutto da sè, senza dire e fare nulla. Lì, conobbi un giovane sottotenente di prima nomina che mio padre teneva in grandissima stima. Molto correttamente, secondo l'etichetta militare di tempi andati (questo però l'ho saputo dopo tanto tempo), chiese a mio padre il permesso di farmi la corte e mio padre gli dette via libera. Io lo accettai come compagno per una sera al cinema o al teatro o come mio cavaliere a qualche cena al Circolo Ufficiali, ma nulla di più. Vederlo innamorarsi così perdutamente di me mi inorgogliva e mi risarciva (che stupidaggine!) di quanto penavo ancora a stare lontana da te.
Da allora siamo sempre stati in contatto. Per lui io ero tutto, per me lui era solo un buon amico, anzi, forse una specie di fratello maggiore. Era in Cecenia, con le truppe italiane prestate all'ONU per pacificare quella regione. Sei mesi fa è saltato con la sua camionetta su una mina e lo hanno portato in Italia moribondo, con un'aeroambulanza. Ha chiesto subito di me ed io sono stata l'ultima persona che l'ha visto vivo. Credimi, era uno strazio vederlo in quelle condizioni. Mi ha implorato, con le sue ultime forze, di far fecondare un mio uovo col suo seme, dopo che fosse morto e io, in quel momento, mi sono vergognata per non essere stata capace di ricambiare i suoi sentimenti, quando era un uomo pieno di vita e per il quale io ero tutto. Non ho saputo dirgli di no e gliel'ho promesso, poco prima di vederlo morire col sorriso nel suo viso, felice del mio impegno, che, naturalmente, anche contro il parere dei miei, ho voluto mantenere. Il bambino uscirà dall'incubatrice fra 3 mesi. Lo vado a vedere quasi ogni giorno e ogni volta mi stupisco nel trovarlo sempre più completo. È un maschietto che, ora, si muove e sgambetta. Qualche volta, quando il liquido che lo avviluppa è più chiaro, sembra sorridere. Lo so che tu non mi puoi capire (neppure mia madre ci riesce), ma è bellissimo assistere allo sviluppo di tuo figlio al di fuori di te. Credo che noi donne di oggi siamo più fortunate delle nostre madri, perchè noi, oggi, i figli li possiamo vedere mentre si sviluppano da un minuscolo grumo di tessuti e si formano sotto i nostri occhi, mentre invece loro potevano solo sentirne il peso che, magari, le disturbava. E poi, noi, oggi, i figli li possiamo fare solo mediante un atto deliberato di volontà e nessuno può costringerci o impedircelo, una cosa che trovo piena di dignità".
"Carla, la prossima volta portami a vederlo. No, non ti chiedo questo per curiosità giornalistica, ma perchè è una cosa tua, una cosa che hai voluto donare tu, una cosa che viene dalla tua generosità, una cosa che ti fa un grande onore".
"Va bene" disse semplicemente Carla.
Lasciata Carla a casa sua, Giorgio si avviò a piedi verso il giornale. Poi, invece, si informò per telefono se c'era qualcosa che richiedeva la sua presenza e, avuta l'assicurazione che tutto era tranquillo, s'incamminò a piedi da Piazza Venezia, verso il Colosseo, mesmerizzato da una luna immensa e bassissima, una luna di quelle che si possono vedere solo a Roma, sopra il Colosseo, nel mese d'agosto.
Lui non lo sapeva ancora, ma, ormai, il suo subcosciente aveva già deciso che, questa volta, Carla non doveva più farsela scappare, perchè era una donna sicuramente diversa da tutte quelle che aveva conosciute fino ad allora. Era una donna che ispirava fiducia, era intelligente, bellissima e dignitosa, certo, da rispettare come una dea, ma, comunque, da amare alla follia.
C'era il problema del bambino. E allora? Poteva adottarlo una volta sposata Carla. Questo avrebbe anche risparmiato a lei le seccature e i problemi con lo stato civile, che si ostinava a ignorare quello che era successo nella fisiologia della riproduzione umana dopo l'impatto dell'asteroide e continuava ad andare avanti con le leggi che c'erano al tempo in cui i figli erano partoriti dalle loro madri dopo essere stati concepiti magari da un uomo ubriaco, che non sapeva che cosa stesse facendo. E questi imbecilli in Parlamento, che continuano a discutere di canali televisivi, di finanziamenti ai movimenti politici e di come mettere i giudici sotto il controllo dell'esecutivo, invece di preparare leggi oneste, che tenessero conto di queste nuove realtà!
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Il matrimonio fu celebrato a Santa Sabina, nel quartiere Aventino. Anche se nessuno dei due era praticante, decisero di sposarsi in quella chiesa, perchè era una delle più belle costruzioni religiose che si trovano a Roma e, si sa, gli italiani hanno bisogno del bello attorno a loro, sempre, ma particolarmente quando fanno qualcosa di importante.
Carla era bellissima nel suo luminoso abito di seta bianca e il velo che era stato già usato da sua nonna e da sua madre.
Giorgio era correttamente e conservativamente vestito color fumo di Londra.
L'aiutante di campo del padre di Carla fece da testimonio a lei, il professore di ostetricia all'Università di Roma fu il testimonio di Giorgio.
Per marcia nuziale usarono un brano musicale che entrambi gli sposi amavano da sempre, il primo movimento del quarto tempo della Sinfonia dal nuovo mondo di Dvorak, con i violini che attaccarono il loro esplosivo tripudio di scintillanti armonie, quando la sposa raggiunse l'altare, al braccio di suo padre che lasciò con un luminoso sorriso pieno di gratitudine, per poi mettersi vicina all'uomo che aveva scelto già quand'era poco più che una bambina.
Salutarono i loro amici al Circolo Ufficiali e poi, con la scusa di dover partire nel primo pomeriggio per il viaggio di nozze, andarono a casa, passando prima per la nursery della Clinica ostetrica a ritirare un fagottello caldo e vociante, il figlio di Carla.
Naturalmente le prime cure furono per il piccolo e per il suo gagliardo appetito.
"In fondo" scherzò Carla, mentre preparava la bottiglia con la poppata del bambino "questa è l'unica cosa a cui l'umanità dovrà rinunciare per sempre. Ora nessun bambino potrà più nutrirsi col latte materno. A noi umani non fa nè caldo nè freddo, ma hai visto a che prezzi è arrivata la carne di manzo, perchè costa un occhio della testa nutrire artificialmente i vitelli?"
"Non è detto. Se i medici ci si mettono, possono sicuramente mettere a punto una sequenza di ormoni capace di causare la montata lattea. Scommetto che, presi da ricerche più serie e dalla necessità di guardarsi le spalle, non ci hanno ancora pensato. Gli allevatori di bestiame sicuramente ci hanno pensato, ma debbono aver deciso di farne a meno per far aumentare il prezzo della carne. Che ne dici?"
"Forse. Ma perchè voi giornalisti siete sempre così maligni?" e tutti e due risero di cuore.
Sfamato il bambino e messolo a dormire, Giorgio continuò a scherzare con Carla.
"Lo sai che era curioso vedere una donna ancora vestita da sposa dare il poppatoio al figlio? Le nostre nonne avrebbero gridato allo scandalo".
"Già, ma le nostre nonne non sapevano dell'asteroide. È vero, sto ancora col vestito da sposa. Fammi cambiare".
Con semplicità, senza esibizionismo, ma anche senza falsi pudori, Carla si spogliò, sotto gli occhi di Giorgio, che non potè evitare di ammirare la bellezza sontuosa della donna che ormai era sua moglie.
Prima che indossasse abiti più semplici, Giorgio la prese tra le braccia e se la strinse con trasporto, ubriacato dall'odore del suo profumo e dal calore della sua nudità.
"Sai, Carla, in fondo è la prima volta che ci troviamo da soli ed è la prima volta che ti vedo nuda. Le solite nostre nonne sarebbero orgogliosissime di noi due! Tutto è successo così rapidamente che magari ti avrò dato l'impressione d'essere un uomo di ghiaccio, senza alcun desiderio di te. Proprio tutto il contrario della verità. Scherzi a parte, non ti sentivo pronta e per questo non te l'ho mai chiesto, nè te lo chiederò mai, prima che tu non lo desideri".
"Lo so, Giorgio, e te ne sono grata. Ora però lo desidero anch'io. Anche perchè, altrimenti, le suddette nonne sarebbero scandalizzate da una sposa che si nega al marito, dopo le nozze!"
Giorgio la prese dolcemente in braccio e la depose su quello che sarebbe stato, da allora in poi, il loro letto matrimoniale. Si distese vicino a lei e cominciò ad accarezzarla e baciarla, con dolcezza, ma con passione progressivamente crescente.
Il respiro sempre più affannato di Carla mostrava il trasporto di lei.
Continuarono a lungo, sempre più persi alla ricerca l'uno dell'altra, finchè tutto divenne vertigine e luce, ombra e onda marina, vento e silenzio, precipizio e urlo, silenzio e musica, sogno e armonia, realtà e gioia, pioggia sulla savana bruciata dalla siccità e sole sulla tundra dopo la tormenta. Poi, dopo il senso di pace infinita che segue sempre le libecciate dell'amore, mentre faceva lentamente fluire i lunghi capelli di Carla tra le sue dita, Giorgio esclamò sommesso: "Ma tu eri vergine".
"Sì, perchè, c'è qualcosa di male?"
"No, ma la cosa mi commuove. Finalmente il mito della vergine madre, da cui sono nati, nel mondo antico, prima Astarte e poi Gesù, si è attuato nella realtà. Viviamo proprio in un'epoca interessante! Speriamo di non avere fatto un figlio proprio adesso, senza pensarci, anche perchè non lo vedremmo mai crescere".
"Scemo, ti pare che il professore non s'è occupato della questione? L'altro mese sono stata da lui, in preparazione al nostro matrimonio e, così, mi ha prelevato col laparoscopio delle uova e mi ha chiuso le tube. È una procedura ormai standard per tutte le giovani spose o per le donne che intendono avere una vita sessuale o che vogliano procreare. Quando decideremo di fare un figlio, basterà andare da lui. Ti preleverà il tuo seme, sceglierà l'elemento più sano e ci fertilizzerà il mio uovo migliore. Poi andremo insieme, per nove mesi, a vedere nostro figlio che cresce, ogni volta che ne avremo voglia. Io dovrò andarci regolarmente, almeno ogni due settimane, per dare un po' del sangue fresco necessario per la macchina cuore-polmoni che nutre la placenta, come ho già fatto per lui. Potevano usare anche sangue di donatori, ma io non ho voluto. Mi sono sempre chiesta come reagirebbe un uomo di fronte a quella macchina che chiamano utero artificiale, anche se somiglia molto di più ad un incrocio fra una damigiana e un computer e forse tu mi toglierai la curiosità".
"Ci andiamo domani" disse Giorgio.
"Non fare il precipitoso! Aspetta almeno che questo che già abbiamo cresca un po'. A proposito, come lo chiamiamo?"
"Ti dispiacerebbe se gli diamo il nome di mio padre? O preferisci dargli il nome del suo?"
"No, solo gli americani danno ai figli il nome del loro padre. Così possono avere il vezzo di fargli mettere junior dopo il nome. No, gli diamo il nome di tuo padre: Marco. Io l'ho conosciuto poco, ma me lo ricordo come un uomo meraviglioso. Lo sai che mi ha operato d'appendicite acuta quand'ero bambina? Mi ricordo che ero terrorizzata di tutto, in ospedale, ma, quando mi parlò, dopo avermi visitata, mi passò ogni paura e mi sentii subito tranquilla e fiduciosa. Era così umano!"
*
Il bambino cresceva sano e robusto e Giorgio non cessava di stupirsi di se stesso per l'attaccamento ogni giorno maggiore che provava per quell'esserino.
Sempre più spesso si scopriva ad esaminare i suoi sentimenti, cercando di capirli e razionalizzarli. All'inizio pensava che essi fossero una logica estensione del suo amore per Carla al figlio di lei, ma questa spiegazione cessò presto di soddisfarlo. La cultura biologica che si era fatta con i suoi studi di medicina, anche se interrotti dall'implorazione di sua madre, gli suggeriva di razionalizzare il suo attaccamento al bambino come la manifestazione umana di quello stesso atavico istinto di protezione e conservazione del patrimonio genetico specifico, per cui la maggior parte degli animali selvatici adottavano i piccoli della stessa specie, rimasti orfani, finchè non diventano autosufficienti. Questo lo portava a filosofare sul concetto stesso di paternità fino a convincersi che non sono i vincoli di sangue a collegare misteriosamente i padri con i figli, ma la consuetudine della vita in comune con loro, rinforzata poi dal peso dei condizionamenti sociali e culturali per cui, se vuoi essere una persona per bene, devi amare e curare i tuoi figli.
Parlava spesso di queste cose con Carla, improvvisamente affascinato dal problema di capire da dove venisse e di che fosse fatto il cemento che unisce le generazioni dei genitori a quelle dei figli.
Gli piaceva guardare sua moglie che accudiva il bambino e scoprire in lei quei piccoli atti del linguaggio del corpo con cui una madre mostra il suo amore per il figlio.
Spesso si sentiva però confuso. Secondo la tradizionale iconografia, l'amore materno ha una natura assai diversa da quella dell'amore paterno, perchè la madre ha portato il piccolo nel suo grembo per nove lunghi mesi, lo ha sentito evolversi in lei, lo ha dato alla luce soffrendo e lo ha nutrito al suo seno, cose che non potevano che creare i misteriosi rapporti di un'affettività che è viscerale, prima di diventare razionale.
Carla, invece, non solo non aveva partorito suo figlio e non lo aveva allattato, ma addirittura non lo aveva neppure concepito unendosi fisicamente ad un uomo. In fondo, per lei, questo bambino era una creatura assolutamente estranea, con cui lei avrebbe dovuto avere un rapporto di natura esclusivamente razionale, il rapporto, cioè, fondato sulla consapevolezza che questo bambino era nato da una cellula uovo che qualcuno le aveva estratta dal ventre con uno strumento chirurgico introdotto attraverso la parete addominale, mentre lei era in anestesia, e che qualcun altro aveva fecondata con del seme estratto dal corpo di un moribondo, che, per lei, era, alla fin fine, solo un amico, un amico caro e fraterno, che l'aveva fatta sentire in colpa per non aver saputo ricambiare l'amore che questi aveva provato per lei.
Da dove venivano quindi gli indubbi istinti materni che Carla mostrava di avere per il piccolo Marco?
Aveva addirittura ancora un senso parlare di istinto materno nel caso di bambini che nascevano da una macchina? Oppure quella macchina ci aveva finalmente permesso di capire la vera natura dell'istinto materno e (perchè no?) anche paterno? Infatti, come faceva Giorgio a sentire quel bambino come suo figlio? Era un'infatuazione passeggera, era un doveroso calarsi nel ruolo di padre per mantenere fede all'impegno d'onore preso adottandolo, era un riflesso del suo amore per Carla o era qualcosa di diverso e più profondo?
La vita con Carla aveva, insensibilmente, mutato la gerarchia degli interessi, anche professionali, di Giorgio. Un tempo, questi era stato sempre felicissimo quando il giornale lo mandava all'estero per servizi in aree scottanti e partiva pieno di emozione, totalmente invaso da quel sentimento che i tedeschi chiamano, molto pertinentemente, Fernweh, un termine traducibile in italiano soltanto con un giro di parole tipo struggimento o desiderio ardente per luoghi lontani, mentre invece ora cercava di evitare, ogni volta che poteva, di allontanarsi da casa. Non sempre, però, ci riusciva, com'era successo quando, l'ennesima carneficina avvenuta a Mogadiscio, fra bande rivali, aveva provocato l'intervento armato della Repubblica del Somaliland, formatasi nel nord del paese verso la fine del 1995 e che, nel frattempo, una volta sopiti gli odii tribali, si era organizzata abbastanza bene come stato autonomo, ben funzionante, ordinato e civile.
Il Presidente del Somaliland, Omar Hussein Ali, un uomo equilibrato e di buona cultura, col segreto incoraggiamento dei governi inglese e italiano che gli garantirono il necessario sostegno politico e gli fornirono mezzi militari adeguati, aveva rotto gli indugi e inviato il suo piccolo, ma bene equipaggiato e disciplinato esercito, nel sud, per mettere fine, una volta per sempre, al predominio delle bande armate che avevano ridotto la regione allo stremo, dopo la partenza delle truppe dell'ONU, nel marzo del 1995.
Le truppe somalilandesi non ebbero alcuna difficoltà ad occupare il cumulo di rovine che era divenuta, prima, la città di Mogadiscio e, poi, l'intera Somalia del sud, dove, per ripristinare al più presto l'ordine, imposero immediatamente la legge marziale.
Giorgio conosceva Mogadiscio per esserci stato qualche anno da bambino, quando suo padre aveva lavorato con la Cooperazione italiana del tempo, per mettere su la Facoltà di medicina e chirurgia dell'Università Nazionale Somala, all'inizio del regime di Siyad Barre.
A quei tempi la Somalia era un'oasi di pace e tranquillità, dove nessuno chiudeva a chiave la porta di casa e dove il vertice della criminalità era dato dal furto di una camicia stesa al sole per farla asciugare dopo il bucato.
Poi erano arrivati gli anni dello sfacelo, accelerato dall'intervento idiota delle truppe americane che, invece di disarmare subito le varie milizie di briganti che si contendevano il territorio, le avevano legittimate, facendo assumere questi figuri come guardiani e guardie del corpo dai vari enti dell'ONU, col risultato che l'unica cosa cambiata nella Somalia del sud, dopo la spesa di miliardi di dollari, era stata che l'americana Dole si era accaparrato il commercio delle banane somale, fin lì controllato dalla Somalfruit, società commerciale, invece, italo-somala.
Naturalmente, Giorgio iniziò il suo lavoro recandosi ad Hargeisa, la capitale della Somalia del nord, per intervistare il Presidente Omar Hussein Ali.
La prima cosa che stupì Giorgio fu la padronanza che il presidente del Somaliland aveva della lingua italiana, un fatto ben comprensibile dato che Omar Hussein Ali, negli ormai lontani anni settanta, aveva studiato Fisica all'Università di Firenze. Poi fu colpito dalla chiarezza dei suoi programmi.
"Vedi, Signor Malini," (i somali, anche quelli bene educati, tendono a dare sempre del tu, quando parlano in italiano, forse perchè sono trascinati a questo dalla razionalità della loro lingua che, come il latino, usa i pronomi grammaticalmente e, quindi, dà del tu a tutti) "gli americani fecero un enorme errore quando sbarcarono a Mogadiscio nel 1992. Io ero lì, allora, e mi ricordo del terrore di tutti a vedere la potenza della loro macchina militare. Se avessero ordinato di consegnare tutte le armi e avessero minacciato di sparare implacabilmente e senza preavviso contro chiunque si fosse presentato in pubblico armato, in pochi giorni avrebbero ristabilito ordine e pace e la Somalia avrebbe avuto un governo civile fin da allora.
Noi stiamo facendo quello che gli americani e l'ONU non hanno saputo o voluto fare. Appena arrivati a Mogadiscio, abbiamo reso noto che qualunque civile fosse stato avvistato con un'arma sarebbe stato abbattuto senza preavviso. Teniamo sempre in volo elicotteri d'attacco che hanno l'ordine di distruggere immediatamente e senza preavviso qualsiasi veicolo armato con cui i briganti delle varie fazioni dei signori della guerra osassero circolare in pubblico per continuare a terrorizzare la popolazione ed abbiamo ordinato che tutte le armi siano consegnate alla polizia che stiamo riorganizzando.
Abbiamo dovuto sparare soltanto un paio di volte e il risultato è che non sappiamo dove mettere la massa di armi che ci stanno consegnando, tanto che pensiamo di gettarle in alto mare.
Dalla prossima settimana, inizieremo a perquisire le case ed abbiamo avvertito che, le case dove saranno trovate armi, verranno bruciate con tutto quello che contengono. Ti assicuro che nessuno correrà il rischio di nascondere un'arma e, se qualche uomo lo facesse, puoi stare sicuro che le donne della casa provvederanno a informare la nostra polizia!"
"Ma, Presidente, come troverete le armi che, sicuramente, verranno nascoste in boscaglia, lontano dai centri abitati, da chi si proporrà di usarle in futuro?"
"Amico mio, la Somalia non ha nè caverne, nè folte foreste. L'Italia e l'Inghilterra ci hanno promesso di inviarci elicotteri da ricognizione forniti di speciali sensori all'infrarosso. Facendoli volare sul territorio, poco dopo il tramonto del sole, questi ci faranno trovare praticamente tutti i depositi di armi nascoste in boscaglia, che potremmo quindi confiscare o distruggere. Comunque, aspetta che fuciliamo il primo signore della guerra per non aver consegnato i suoi armamenti e vedrai che gli altri faranno tutti la fila per liberarsi pure dei fucili ad aria compressa, se ne hanno! Vedi, la gente comune, qui, è stufa di subire le prepotenze di questi briganti e sosterrà senza limitazioni un governo che sia giusto ed onesto e che faccia sul serio".
"Ancora una domanda, Presidente. Si sono sentite diverse voci circa l'attività di gruppi di fondamentalisti islamici in Benadir. Vi aspettate problemi?"
"Assolutamente no. Vedi, Dottor Malini, i somali sono sempre stati musulmani devoti, ma mai fanatici. Il nostro Islam è quello vero, quello antico. E l'Islam vero è fatto di tolleranza, non di violenza ideologica. Ti ricordo che, quando i principi cristiani dell'Europa antica perseguitavano gli ebrei, questi cercarono asilo nei territori governati dal Califfo, per rifarsi una vita in dignità e prosperità, perchè lì regnava la tolleranza e il rispetto per tutti. L'Islam ha governato per secoli gran parte della Spagna. Esiste un solo esempio storico in cui mancarono di rispetto alla libertà religiosa degli spagnoli cristiani? Anche in India, durante i secoli di regno musulmano del Moghul, dopo qualche prepotenza iniziale durante la conquista, c'era la massima libertà religiosa ed il Moghul, per rispetto dei suoi sudditi, costruì non solo splendide moschee, ma anche meravigliosi templi indù. Purtroppo, noi musulmani abbiamo perduto l'istituzione del Califfato. Il Califfo era infatti per l'Islam un po' quello che il Papa era per voi cattolici nell'antichità, quando aveva anche un enorme potere temporale (anche se va detto che il Califfo era forse più giusto e più tollerante del Papa, perchè non si è mai sognato di perseguitare i suoi sudditi non musulmani). Se ci fosse oggi il Califfo, puoi stare sicuro che farebbe una fatwa contro il fondamentalismo islamico, perchè considererebbe blasfemo l'uso della religione per acquisire potere politico personale. I somali possono essere crudelmente nemici l'uno dell'altro, ma, quando si tratta di religione, la loro fede nell'Islam è quella genuina degli antichi abitanti del deserto: Allah è per tutti, tutti noi siamo schiavi di Allah e nessuno ha il diritto di arruolare Allah nel suo partito e servirsene per conquistarsi il potere. Ti ripeto, l'Islam è tolleranza per tutti, è rispetto per tutti, è amore per tutti e l'Islam ci insegna che siamo tutti uguali di fronte a Dio, cioè zero!"
Tornato a Roma favorevolmente impressionato dalla determinazione delle autorità somalilandesi e dalla loro volontà di mettere ordine, Giorgio parlava della sua esperienza col padre di Carla, ormai divenuto vice capo di stato maggiore della difesa e, quindi, interessato, anche per dovere d'ufficio, alle notizie fresche portate da Giorgio sulla situazione in Somalia.
"E così il Presidente Omar Hussein Ali sta facendo quello che avremmo dovuto fare noi a suo tempo, ma che gli americani non vollero fare e non ci permisero di fare, Dio solo sa perchè. Credo che fosse un problema puramente culturale. Mi ricordo infatti che, nel 1993, dopo l'incidente del Check Point Pasta, parlai del problema Somalia con un collega americano, in visita ufficiale al ministero. Quando gli dissi che, secondo me, il primo atto da fare per pacificare la Somalia avrebbe dovuto essere stato quello di disarmare, con le buone o con le cattive, tutti i somali e poi riorganizzare una buona polizia, mi rispose, con gli occhi sgranati per quella che a lui sembrava un'enorme eresia, che nessuno poteva conculcare il diritto di uomini liberi di portare armi.
Non che noi ci fossimo comportati meglio di loro, per altri aspetti. Il padre del bambino che hai adottato, ebbe un grosso problema col suo comandante in Somalia, che finì in un grosso litigio e con la sua richiesta di rimpatrio immediato. Se non lo avessi ripescato io chiedendo che fosse messo ai miei ordini nel reggimento che, allora, comandavo, avrebbe avuta la carriera distrutta, anche se era lui ad aver ragione e non il suo comandante. Ormai è tutta acqua passata, ma sono sicuro che a un giornalista acuto come te dovrebbe interessare di sapere che cosa effettivamente succedeva, allora, a Mogadiscio".
"Certo che mi interessa! Nei nostri ambienti abbiamo sempre avuto il sospetto che le versioni ufficiali non erano la verità. Ripetevamo quello che ci dicevano perchè ci era impossibile trovare fonti più attendibili".
"Vedi, tanto gli americani quanto gli altri contingenti che arrivarono in Somalia subito dopo agivano completamente privi di ogni coordinamento. Questo era dovuto un po' a gelosie di comando, ma molto al fatto che i vari comandanti dovevano cercare di implementare le disposizioni imprecise e spessissimo addirittura contraddittorie che ricevevano contemporaneamente dal Segretario generale dell'ONU, dai vari delegati dell'ONU, civili e politici, presenti in Somalia e dai rispettivi governi nazionali.
In questo contesto di insicurezza, direi, istituzionale, il 2 luglio del '93, verso le 4.30 del mattino, alcuni reparti della Folgore partirono dal Raggruppamento Alfa (così si chiamavano le unità italiane stanziate nel vecchio porto di Mogadiscio) per congiungersi con alcune unità che, invece, erano di stanza a Balad. Scopo della manovra era di effettuare una vasta missione di rastrellamento per confiscare armi ed altro materiale bellico ai vari briganti che si contendevano il territorio.
Nel compiere queste missioni, allo scopo di non arrivare, se possibile, allo scontro violento, era invalso l'uso di offrire viveri, in cambio delle armi confiscate.
Come ricorderai, in quel periodo, gli italiani controllavano il settore nord della città, quello che era sotto Ali Mahdi. Era però previsto che quel rastrellamento si estendesse anche alla zona del pastificio, che era un'area in cui il territorio di Ali Mahdi sfumava in quello controllato da Aideed e dove si aggiravano membri di tribù che si consideravano alleate o nemiche quasi a giorni alterni, se capisci che intendo.
Secondo le direttive dell'ONU, di evitare, se possibile, lo scontro diretto, era invalso l'uso, prima di incominciare questo tipo di operazioni, di prendere contatto con gli anziani del quartiere, in modo da smussare gli angoli. Questo, naturalmente, aveva lo svantaggio di permettere ai briganti in questione, di mettere in salvo per tempo quegli armamenti a cui tenevano di più, ma, nell'indecisione generale, si considerava meglio un risultato parziale che nessun risultato. Il sistema, anche se filosoficamente sbagliato, aveva funzionato abbastanza bene, secondo le vedute dell'ONU, ed infatti gli italiani furono gli unici a rastrellare armi in notevoli quantità.
La missione di quel giorno prevedeva l'uso di circa 400 poliziotti somali per la parte attiva dell'operazione, in cui, le nostre truppe, dovevano agire da rincalzi. Questo, però, col senno del poi, si rivelò un grosso errore che, per essere evitato, avrebbe richiesto una conoscenza delle affiliazioni tribali, che i nostri ufficiali responsabili non avevano (infatti, al nostro corpo di spedizione non era stato assegnato nessuno dei diversi italiani disponibili nel Paese che conoscevano a fondo la Somalia per averci vissuto e lavorato a lungo in precedenza). Il fatto che nessun appartenente al clan degli Habr Ghedir facesse parte della forza di polizia somala impegnata nell'operazione e che la maggior parte di questi poliziotti fossero invece Abgal o non fu notato o non fu sufficientemente apprezzato. Queste due etnie, anche se appartengono tutt'e due, infatti, al sottoclan degli Hawiye e, un tempo, erano in amicizia, nella violenza intertribale della Somalia di quei giorni, erano diventate acerrime nemiche. Il risultato fu che, ad un certo punto scoppiarono tafferugli fra i poliziotti e la marmaglia della zona, fatta interamente da Habr Ghedir, che iniziò la solita sassaiola. I poliziotti somali, ad un certo punto, non poterono evitare di reagire e risposero con qualche colpo d'arma da fuoco per cui una donna rimase uccisa.
Quella morte fu esattamente quanto gli occulti registi del tafferuglio desideravano (è possibilissimo che questa donna fosse stata uccisa dai briganti mescolati alla folla anzichè dai poliziotti) e il cadavere fu subito portato nel luogo dove il Comandante del contingente italiano era a parlamentare con gli anziani (altro enorme errore psicologico: il rais mkubwa, il grande capo, in Africa, non perde mai faccia andando a parlamentare direttamente con capi minori, ma ci manda i suoi emissari!). Questi anziani, a quel punto, si ritirarono dalle trattative e, che la cosa fosse stata pianificata in anticipo, fu chiarissimo quando, subito dopo, cominciarono a partire dalle case tutt'intorno colpi d'arma da fuoco perfettamente coordinati.
In ottemperanza alla filosofia di non cercare lo scontro diretto, verso le 8 del mattino, in una situazione tesissima, il Comando italiano dette ordine alle truppe di rientrare alle basi.
Purtroppo, l'inesperienza dei nostri ufficiali in tema di operazioni di polizia coloniale (secondo una vecchia nomenclatura che uso per mancanza di una più moderna) non aveva mai inequivocabilmente stabilito il principio, essenziale in Africa, che azioni militari dirette contro le truppe avrebbero provocato, sempre e comunque, risposte immediate e durissime, per cui i banditi armati sapevano di correre rischi solo modestissmi ad attaccare dei soldati che non si sarebbero difesi adeguatamente, perché questi erano gli ordini che avevano. E così, mentre i nostri mezzi si raggruppavano per sganciarsi, i briganti armati, nascosti tra la popolazione inerme, mandata avanti per coprirli, cominciarono a sparare contro i nostri soldati. Il primo ad essere colpito fu un sergente maggiore del IX Battaglione Col Moschin, che poi morì in ospedale.
A quel punto, un buon comandante avrebbe ancora potuto salvare la situazione, mediante un impiego massiccio e tempestivo delle forze di cui disponevamo, ma era invece successo che, nel frattempo, il Distaccamento Comando si era ritirato nell'interno del complesso di edifici della nostra Ambasciata, mentre i mezzi corazzati dell'Ariete, anzichè essere concentrati a protezione della colonna che doveva rientrare a Balad, furono tolti dal campo. Il risultato fu che questa colonna rimase incastrata fra due sbarramenti stradali fatti di enormi pile di vecchi pneumatici in fiamme, diventando così un facile bersaglio per il tirassegno dei tanti cecchini che sparavano da ogni direzione. Naturalmente il divieto di rispondere al fuoco, stupidamente reiterato dal Comando, dopo che non seppe o non volle rendersi conto della situazione, non aiutò nessuno. Un carro venne colpito da una granata anticarro russa RPG7 e un giovane paracadutista di leva, Salvatore Baccaro, ebbe una gamba distaccata e morì dissanguato. Subito dopo, un giovane ufficiale dei Cavalleggeri di Montebello, il sottotenente Millevoi, venne, pure, ucciso ed altri due uomini vennero feriti. Gli ufficiali sul campo chiedevano, disperati, di avere il permesso di fare uso delle armi per difendersi, ma il Comando, con una decisione assolutamente inadeguata a tutelare i soldati che si trovavano a fare da bersagli fissi per una sparatoria divenuta, nel frattempo, micidiale, ripetè assurdamente l'ordine di sganciarsi senza rispondere al fuoco. So del pilota di un elicottero d'assalto che era sopra la scena e che comunicava di avere nel mirino l'obiettivo da dove il fuoco contro i nostri era più denso e chiedeva il permesso di sparare. Siccome il Comando continuò sempre a negare questo permesso, continuando così a causare morti evitabilissime fra i nostri soldati, il padre del bambino che hai adottato ebbe un moto di violenta ribellione. Da rapporti e colloqui riservati che ho avuto, ho capito che egli rinfacciò, senza tanti complimenti, al suo diretto superiore il fatto che il primo dovere di un comandante è, sempre e comunque, quello di salvare le vite dei suoi uomini, quando il sacrificio di queste vite non è essenziale alla missione. Gli disse che, se anche non riuscivano a mettersi in contatto col Ministro a Roma per farsi dare da lui il permesso di difendersi ed avere quindi la sua copertura politica, era dovere del comandante sul campo di dare gli ordini necessari a proteggere le vite dei suoi soldati, anche a costo di andare poi sotto corte marziale. Gli gridò che era indegno di un ufficiale cercare la copertura politica di quei pidocchi (usò proprio questa parola) che eravamo abituati ad avere per Ministri della Difesa, prima di prendersi l'intera responsabilità di dare gli ordini necessari a salvare le vite dei soldati a lui affidate, che si vergognava per quello che stavano facendo e chiedeva l'immediato rimpatrio.
Aveva, in fondo ragione. Con un minimo di determinazione, poche cannonate ben dirette e un po' di fuoco di saturazione delle armi portatili e delle mitragliere disponibili, i briganti armati si sarebbero dileguati in un batter d'occhio o sarebbero stati polverizzati dal fuoco concertato e combinato dei mezzi blindati e degli elicotteri d'assalto, che avevano tutta la potenza necessaria per radere al suolo l’intero quartiere in pochi minuti, se fosse stato necessario, ma, per dare gli ordini adatti, servivano ufficiali superiori con un'esperienza e con un'educazione morale, che nessuno ha mai potuto maturare, in quasi cinquant'anni di governi democristiani, durante i quali, alle alte cariche militari, si arrivava solo se si era nelle buone grazie dei pidocchi a cui si riferiva il padre del tuo bambino.
Sono stato io che, conoscendolo fin dalla sua prima nomina e sapendo di che pasta fosse fatto quell'uomo, l'ho salvato dal binario morto in cui la sua carriera sarebbe finita al rientro dalla Somalia e l'ho rimesso in gioco. Purtroppo è finito come è finito, proprio per le sue virtù militari e la sua generosità. Strettamente parlando, non aveva bisogno di uscire in ricognizione quando è stato ferito in Cecenia. Poteva mandarci qualcun altro, ma è voluto andare di persona perchè sapeva che la zona era pericolosa e ha voluto rendersi conto direttamente di che cosa rischiavano i suoi uomini e di che cosa era in suo potere di fare per ridurre i rischi che questi avrebbero dovuto correre.
Non mi fraintendere. So quanto tu ami mia figlia e so che lei, con te, è e sarà sempre felice, ma ti assicuro che mi dispiaceva da morire quando lei si rifiutava di dare almeno un po' di speranza a quel pover'uomo che, invece, si sarebbe buttato nel fuoco, per lei.
Speriamo che i somali del nord facciano meglio di noi e dell'ONU, una cosa, a pensarci bene, facilissima. Noi, come esercito, stiamo tentando di aiutarli con esperti e con mezzi militari, ma tutto è di una difficoltà estrema perchè non è che il nostro governo sia molto interessato alla cosa. Intendiamoci, non per partito preso o per seri motivi politici, ma, essenzialmente, per ignoranza e incompetenza e, almeno un po', anche per banale accidia. Oltre tutto ora sono tutti nel pallone per via delle prossime elezioni. Se ci hanno autorizzato a fare quello che stiamo facendo per sostenere gli sforzi del governo di Omar Hussein Ali, lo hanno fatto soltanto per via delle fortissime pressioni del governo britannico".
*
Marco, continuava ad essere l'elemento più importante della casa e Giorgio si sentiva, talvolta, un po' messo da parte, quando le prime attenzioni di Carla erano palesemente riservate al bambino.
Giorgio reprimeva, talvolta con vergogna, i subitanei e irrazionali moti di gelosia che ogni tanto provava, quando vedeva che, per sua moglie, le esigenze del bambino venivano prima di ogni altra cosa, ma non poteva fare nulla per evitarne l'insorgere. Qualche volta si scopriva a pensare che, in fondo, quel bambino era un piccolo intruso che si era appropriato del suo nome e della sua casa, anche se, poi, scandalizzato di se stesso, sopprimeva subito questi pensieri e se ne vergognava. Però erano pensieri che tornavano di continuo e, ogni tanto, portavano con sè anche delle venature di critica nei confronti di Carla, per avere lei ceduto senza resistere al troppo insolito e peregrino desiderio del suo amico moribondo. Poi, però, ragionandoci di nuovo a mente fredda, si dava del cretino, anche se, subito dopo, si autogiustificava dicendosi che, in fondo, per secoli, gli uomini avevano considerato sempre come intrusi eventuali figli avuti dalle loro donne con altri uomini.
Desiderava, ogni giorno di più, di avere un altro bambino, questa volta suo anche geneticamente, e, ogni volta, quand'era sul punto di parlarne con Carla, si sentiva genericamente colpevole di una specie di tradimento per il piccolo e innocente Marco e, così, all'ultimo momento, rinunciava ad aprire bocca, perchè non riusciva a trovare le parole adatte o l'occasione non gli appariva più tanto adatta. Sentiva infatti che, per nessun motivo al mondo, avrebbe dovuto dare a Carla l'impressione che, alla base del suo desiderio di avere un figlio biologicamente suo, ci fosse la sua irrazionale gelosia per il padre naturale del bambino. Temeva infatti che questo avrebbe potuto offendere Carla con chissà quali conseguenze nei loro rapporti e magari col rischio di perdere l'affetto e la stima di lei, una cosa che lo faceva rabbrividire solo a pensarci.
La conseguenza di questi travagli del suo intimo era uno stato di latente nervosismo, ben dissimulato, sì, ma che non poteva, alla lunga, sfuggire ad una donna innamorata.
E, infatti, da un po' di tempo, Carla si chiedeva sempre più spesso perchè suo marito le sembrasse un po' cambiato negli ultimi mesi. Era sempre affettuoso e disponibile come prima, ma non poteva evitare di osservare certe manifestazioni che a lei sembravano di insicurezza. Diverse volte le era sembrato che Giorgio volesse parlarle di qualcosa, per poi, decidere altrimenti all'ultimo momento. Spesso si chiedeva se non avesse problemi col suo lavoro di cui lei non era al corrente. Certo c'era qualcosa di molto personale che turbava Giorgio, ma non c'era verso di farglielo ammettere. Una volta s'era scoperta a chiedersi, preoccupata, se non si fosse innamorato di un'altra donna, per poi darsi subito della cretina per l'assurdità del dubbio.
"Sono solo un po' stanco e un po' preoccupato per quello che sta succedendo in questo Paese. Ma ti pare che qui debba andare tutto in malora purchè il padrone di un impero televisivo, interamente creato con soldi presi a prestito e oblique protezioni politiche, possa salvarsi dai suoi creditori e dai tribunali che lo perseguono per i suoi imbrogli finanziari?" rispondeva Giorgio. Ma si vedeva bene che il suo nervosismo era dovuto a ben altre cause, più intime e meno pubbliche.
Comunque, senza volerlo, fu proprio Carla a risolvere il problema.
"Giorgio, sei sempre dell'idea di avere un altro bambino? Ormai Marco cammina da sè e possiamo dargli compagnia. Che ne pensi?"
Erano seduti a tavola per cenare, quando Carla le fece la sua proposta. Il bambino era stato appena messo a dormire e loro erano soli, per la prima volta nella giornata.
"Ma..., sì..., se tu vuoi,... perchè no?..." balbettò Giorgio, improvvisamente confuso.
"Non sembri molto convinto" disse Carla ridendo, "pensavo che dicessi sul serio quando mi dicesti che volevi un altro bambino, appena ci siamo sposati".
"No, non è che non sono convinto. È che pensavo che fossi tu a non volerne un altro. La cosa mi disturbava enormemente, ma non avevo il coraggio di parlartene".
"Non mi dire che è questo quello ti turba da un po' di tempo a questa parte".
"Sì, te lo confesso, cominciavo ad essere un po' geloso del bambino e mi facevo domande su domande del perchè tu lo abbia voluto fare, mentre tutta la tua famiglia era contraria e, poi, hai detto di no a me. Poi mi vergognavo di quello che pensavo. Continuavo a volertene parlare, ma non sapevo come e avevo paura di usare le parole sbagliate e, magari, offenderti senza volerlo. Scusami".
"Sei sempre il solito. Di che cosa avrei dovuto offendermi? Per me sei sempre contato solo tu, da sempre. E tu lo sai.
Quando ti ho detto che, a vederlo morire così, felice e pago solo perchè io gli stavo vicina, ho riflettuto su quanto lo abbia fatto soffrire, col mio rifiuto ad amarlo e mi sono sentita improvvisamente e dolorosamente colpevole, ti ho detto la verità. Ed è stata anche la pura verità che, dire di sì alla strana sua richiesta, è stato un modo di fare ammenda per questo dolore che gli ho arrecato. Mi sembrava il minimo che potessi fare il promettergli quanto mi chiedeva, come suo ultimo desiderio prima di morire (forse gli dava l'illusione di sopravvivere, non so). Che avresti pensato di me se fossi stata capace di mentire a un uomo in punto di morte, a un uomo per cui io ero tutto, anche se per me lui era qualcosa di troppo diverso da ciò che invece desiderava d'essere più di ogni cosa al mondo? Che tipo di lealtà ti saresti potuta aspettare da una donna capace di mentire in un'occasione come quella? Giorgio...!"
Con gli occhi improvvisamente pieni di lacrime, singhiozzando come un bambino in un pianto rigeneratore, Giorgio si alzò e prese sua moglie tra le braccia, senza saper trovare alcuna parola con cui risponderle.
Non riusciva a mettere ordine nel tumulto dei suoi pensieri.
Non sapeva distinguere quale fosse il sentimento più grande nel suo animo, se la sua immensa passione per quel tesoro di donna che era sua moglie; se la vergogna per le sue fantasie irriguardose nei confronti di lei; se la sua pietà per il destino triste di un uomo che aveva amato la sua Carla, come i cavalieri delle leggende medievali amavano le loro donne, un uomo che egli aveva imparato a conoscere soltanto tramite i racconti di altri, ma che lo aveva sempre colpito per la sua nobiltà d'animo, per la devozione agli uomini ai suoi ordini e per il suo altissimo senso del dovere; o se la gioia di poter finalmente soddisfare il suo desiderio di avere un figlio suo dalla donna che amava e nelle cui braccia si sentiva sempre pago e sereno.
"Dio, come riusciamo a soffrire e a far soffrire per inseguire fantasie malsane e per non essere sempre aperti ed espliciti con le persone che ci sono più care" pensava.
E così, l'indomani, andarono insieme in Clinica ostetrica dall'amico di suo padre.
"Benvenuti ragazzi, pensavo a voi proprio ieri e mi chiedevo quando vi sareste decisi al gran passo. Così volete dare compagnia a Marco. Benissimo. Volete dargli un fratello o una sorella?"
Carla e Giorgio si guardarono in faccia e poi risposero quasi all'unisono: "Non vogliamo scegliere noi. È possibile lasciare la scelta al caso?"
"Certo che è possibile. Mi pare una decisione giusta. Solo che il sesso del nascituro lo scopriremo abbastanza presto. A meno che non decidiate di non venire a vederlo mentre si forma".
E così uno degli ovociti di Carla, prelevati dal Professore poco prima del matrimonio di lei con Giorgio, venne fecondato in vitro col seme di Giorgio e messo a svilupparsi nell'utero artificiale.
Non che l'atto in sè fosse emotivamente coinvolgente, ma Giorgio si sentiva comunque emozionato dall'idea che una parte di sè aveva cominciato a crescere, dopo essere stata unita, nell'interno di una provetta, ad una parte di Carla, grazie alla perizia di uno scienziato, messa al servizio della vita.
Non era, nel suo caso, l'emozione improvvisa che gli uomini dei tempi andati dovevano aver provato quando le loro donne comunicavano loro di essere gravide. Anzi, allora doveva essere stato ben possibile che qualcuno di loro, più che emozionato, si fosse sentito addirittura seccato e irritato. Qualcuno sarà magari stato indifferente e incapace di capire le implicazioni.
Per quanto riguarda invece le donne delle epoche precedenti all'asteroide, ben poche di loro dovevano aver avuta la possibilità di esprimere autonomamente la loro volontà se diventare madri o no ed anzi, la maggior parte di loro, deve essersi trovata ad aspettare un bambino, senza aver assolutamente deciso nulla, nè in un senso, nè nell'altro. Alcune di loro debbono essersi addirittura trovate gravide contro la loro volontà e contro i loro piani.
L'asteroide aveva cambiato tutto questo ed ora non era possibile reagire altro che con soddisfazione e gioia all'inizio del progetto di un figlio, perchè ora la fecondazione di un ovocita era diventata una chiara e diretta conseguenza di una deliberata decisione, presa di comune accordo, da una coppia e non più un accidente che poteva verificarsi per caso, per errore, contro i desideri di uno dei coniugi o di tutti e due o poteva addirittura non realizzarsi affatto, certe volte, nonostante il desiderio.
Carla, dal canto suo, cercava di paragonare quello che provava ora a quello che aveva provato la prima volta.
Allora era turbata e nervosa, perchè si trattava di una cosa ancora fuori del normale, a cui la sua famiglia si era opposta e che lei aveva invece voluto fare ad ogni costo, per conservare il rispetto di se stessa.
Ora, invece, era tranquilla e serena, forse un po' divertita di fronte all'emozione di suo marito, che sembrava fuori di sè e voleva andare ogni giorno in Clinica, "a vedere il nostro bambino", come diceva.
Il Professore lo accoglieva sempre paterno e gentile.
"Giorgio, ora non può vedere ancora nulla che significhi qualche cosa. Vostro figlio o vostra figlia, è, per adesso, soltanto un grumo confuso di protoplasma di dimensioni microscopiche. Guardi le illustrazioni di questo libro, che sono molto più comprensibili di quello che non si possa vedere a occhio nudo. Aspetti qualche mese, quando l'embrione avrà assunto un aspetto umano".
Ma non c'era niente da fare. Ogni momento che Giorgio aveva libero, si precipitava dal Professore ad informarsi di suo figlio o di sua figlia, quello che fosse. Quando non poteva andare, telefonava.
Carla si sentiva imbarazzata e si scusava col Professore.
"Non c'è nulla di che scusarsi. Ci siamo accorti che, praticamente, quasi tutti gli uomini reagiscono così. Credo che siano affascinati dalla maternità, intesa come procreazione e sviluppo del feto, che, per la prima volta nella storia della razza umana, li può riguardare direttamente. Meno male che, nei tempi andati, le gravidanze avvenivano nel corpo delle donne, perchè altrimenti, se fossero esistiti i mariti gravidi, c'era di che diventare matti a fare gli ostetrici! D'altra parte, Carla, lei non veniva spesso a vedere il suo primo figlio, anche quando non serviva che fosse lei a darci un po' di sangue per la macchina cuore-polmoni?"
"Sì, Professore, è vero, ma era appunto il mio primo figlio ed ero eccitata".
"Beh, anche per Giorgio è il primo figlio ed anche lui è eccitato. E poi non mi dica che questa volta non verrà con la stessa frequenza di allora, dato che questo è il suo secondo figlio".
"Che c'entra. Io sono la madre!"
"Ed allora? Lui è il padre. L'utero artificiale ha finalmente messo i due ruoli sullo stesso piano, dando a entrambi le stesse emozioni e gli stessi modi di farsi coinvolgere. È per questo che cerchiamo di mettere nella macchina cuore-polmoni che ossigena la placenta artificiale sia il sangue donato dalla madre, che quello donato dal padre: per coinvolgerli entrambi. E poi io vedo Giorgio sempre con piacere".
"Ah, Professore, dunque io la infastidisco?"
"Via, Carla, non giochi con le parole e non mi faccia dire quello che non ho detto nè pensato! Mi siete entrambi cari allo stesso modo ed allo stesso modo sarete sempre i benvenuti".
E così, Carla e Giorgio finirono col passare gran parte del tempo che avevano libero in Clinica ostetrica, seduti a chiacchierare del più e del meno di fronte al vaso di cristallo dove la loro figlia (ormai s'era visto che era una femmina) flottava nel liquido amniotico, era attivissima, rispondeva sicuramente a stimoli auditivi e, forse, anche a certi stimoli visivi, come le luci forti e, certe volte, sembrava perfino di sorridere tra sè e sè. Ultimamente, il Professore aveva, anzi, fatto sistemare delle fonti sonore che propagavano nel liquido amniotico, a scadenze fisse, specie quando i genitori non erano presenti, le onde sonore di registrazioni della voce sia della madre che del padre, valorizzando certi studi fatti negli anni 80, che avevano dimostrato l'azione sedativa e tranquillizzante della voce materna sull'embrione nel suo interno. Perchè, si era chiesto il Professore, non far abituare l'embrione anche alla voce del padre?
Finalmente, dopo nove mesi di attesa durante i quali la Clinica ostetrica costituiva il centro dei loro interessi, una telefonata dal Direttore informò Carla e Giorgio che la loro bambina era pronta per nascere. Tutti e due si precipitarono in clinica, indossarono abiti sterili e maschere e, dopo aver solennemente promesso di non interferire, furono ammessi al grande evento. Giorgio specialmente era emozionatissimo. Stava per assistere ad un parto, al parto del suo primo figlio naturale e secoli di luoghi comuni influenzavano la direzione dei suoi pensieri, facendogli immaginare spettacoli chissà quanto cruenti. Invece il tutto si svolse secondo le ordinate linee direttive di un asettico esperimento scientifico. Con gli occhi incollati sui vari monitor, il Professore, con voce sommessa, dava di tanto in tanto, brevi ordini ai suoi assistenti. Prima fu rallentato il flusso del sangue che arrivava alla placenta artificiale, in modo che attraverso il cordone ombelicale che connetteva la nascitura alla placenta, arrivasse un po' meno ossigeno all'esserino pronto a entrare nel mondo. Poi, quando il livello di ossigenazione dell'encefalo della bambina raggiunse il limite previsto per assicurare un forte stimolo ai centri del respiro, fin lì inattivi, il vaso di vetro che conteneva la nascitura fu aperto e la bambina fu estratta dal liquido amniotico con un tempismo perfetto per il suo primo atto di inspirazione dell'aria atmosferica. Il suo primo grido colpì Giorgio come un urlo di vittoria. Legato e sezionato il cordone ombelicale, la bimba fu lavata, intalcata, vestita e consegnata al Professore, che, subito, la portò ai genitori in attesa. Giorgio non riuscì a resistere ad un istinto primordiale che lo fece correre incontro al Professore e quasi strappare la bambina dalle sue mani, per stringersela al petto.
"Piano, Giorgio, non sia così violento. La piccola è sana come un pesce, ma non per questo uno la può strizzare così".
Carla, con la saggezza intrinseca delle donne, che fa essere queste madri non solo dei loro figli, ma, in certe occasioni, anche dei loro mariti, osservava divertita le reazioni di natura più materna che paterna di Giorgio e si rendeva conto di quanto fosse vero quello che il Professore le aveva detto, in preparazione all'evento (lo chiamò così, evitando l'uso della parola parto) e cioè che, questo nuovo modo di fare figli, imposto dagli aminoacidi alieni portati dall'asteroide nelle nostre cellule, creava negli uomini una corrente di emozioni per il nascituro, molto simile a quella che si formava un tempo fra una donna gravida ed il contenuto del suo grembo. Probabilmente era la novità della cosa che rendeva questi padri tanto eccitati e, forse, ci si poteva aspettare che, una volta razionalizzate le emozioni e col generalizzarsi delle esperienze, anche i padri si sarebbero comportati con la compostezza delle donne, ormai non più turbate dalla paura e dal dolore che accompagnavano gli antichi parti.
Una volta a casa, Giorgio ebbe bisogno di un tempo piuttosto lungo per riacquistare il controllo di se stesso. All'inizio, non dormiva più, la notte, col suo solito, lungo sonno di piombo. Sonnecchiava per brevi intervalli e si scopriva a tendere continuamente l'orecchio, per ascoltare se la bambina frignava o aveva bisogno di qualche cosa. Si alzava continuamente per assicurarsi del suo benessere. Atti semplicissimi, come cambiarle i pannolini o farle il bagnetto, erano diventati cerimonie complicatissime.
"Sei sicura che la temperatura dell'acqua è giusta?" oppure "Non le farà male la corrente d'aria?" e via di seguito.
Finalmente Carla dovette imporsi con fermezza: "Senti, Giorgio, o la pianti di fare il fanatico o non ti faccio più toccare questa bambina, altrimenti me la fai diventare una principessa Sissi. Prova a pensare a che faceva tua madre per te e per tua sorella e a che facevi tu per Marco e agisci di conseguenza, copiando. O vuoi farmi credere che tua madre era una madre snaturata e che tu fai parzialità con Marco, perchè non lo consideri tuo figlio?"
La lezione fu salutare e Giorgio si rese conto di essere stato un po' eccessivo nei suoi entusiasmi. Ricominciò ad occuparsi di Marco, con l'affetto di prima. Di nuovo c'era solo il fatto che lo portava spesso a vedere la sua sorellina e stavano insieme a lungo a guardarne le moine. Ritrovò l'antica complicità con Carla e furono di nuovo una famiglia distesa e serena, unita e felice.
Il lavoro dava però a Giorgio preoccupazioni sempre maggiori. Il suo giornale era stato tra i più attivi a sostenere l'opposizione della cittadinanza ai tentativi delle autorità ufficiali di sabotare le ricerche scientifiche che avevano portato allo sviluppo dell'utero artificiale e le conseguenze cominciavano a vedersi. Una legislazione scaltra e poco chiara, proposta con la scusa della par condicio di scalfariana memoria, da una classe dirigente, nel frattempo divenuta forse ancora più abile a contraffare di quella dei tempi di Craxi e di Andreotti, e, soprattutto, un'interpretazione un po' forzata di queste leggi da parte dell'esecutivo, stava privando la stampa, specialmente quella non allineata, dei proventi della pubblicità, dirigendo questa verso le televisioni private, che invece la legge lasciava padrone assolute del campo, sicchè i giornali o si allineavano o stentavano a sopravvivere. Molti perivano.
Gli intellettuali di tutto il mondo si erano resi conto della cosa e non facevano che firmare appelli al Parlamento di Strasburgo e perfino all'ONU, ma le autorità italiane facevano orecchie da mercante. La Corte costituzionale, unica istituzione italiana rimasta al di sopra delle parti, avrebbe dovuto esaminare diversi quesiti sul tema, ma le grandi manovre per rimpiazzare certi giudici con elementi più malleabili nelle mani dell'esecutivo erano già cominciate.
L'inizio del nuovo millennio doveva coincidere col rinnovo del Parlamento italiano, ma tutte le scuse erano buone per rinviare queste elezioni, perchè, nel frattempo, gli italiani erano guariti dall'ubriacatura generale degli anni 94 e 95 ed avevano finalmente cominciato ad aprire gli occhi ed a capire che la seconda repubblica fatta d'onestà di intenti che si aspettavano dopo la caduta della prima, s'era rivelata quasi peggiore di quella, per l'azione politica di gente che, come i precedenti ladri di stato, considerava questo come un'appendice delle loro aziende private.
Chiave per la soluzione del problema della becera maggioranza uscente di assicurarsi la rielezione era l'ottenimento dell'appoggio ufficiale del Vaticano. I pensieri e le preoccupazioni del Papa erano però, in quel momento, più per le implicazioni morali e teologiche connesse con la riproduzione umana e così, proprio in quel periodo, Papa Wojtyla, convocò in Vaticano una conferenza dei capi di tutte le maggiori religioni, per definire una linea comune sui problemi della sessualità e della procreazione extrasessuale, con la speranza di assicurarsi un vasto sostegno, nonostante le differenti inclinazioni delle maggiori religioni.
Gli indù, per esempio, con la loro credenza nella trasmigrazione delle anime da un essere all'altro, in un semieterno susseguirsi di reincarnazioni, non avevano particolari motivi teologici per opporsi alle pratiche definite blasfeme dai cristiani, con cui i medici si arrogavano il diritto di cambiare l'ordine creato da Dio.
Per i buddhisti, valevano, grosso modo, le stesse considerazioni fatte per gli indù.
Le varie denominazioni protestanti avevano perso gran parte della loro influenza sui fedeli, perchè, infatti, nei paesi della Riforma, i praticanti si erano ridotti a sparute minoranze della popolazione.
Però si poteva sperare nel sostegno di almeno due grosse comunità religiose. Una di queste erano gli ortodossi, che seguivano quasi pedissequamente le vedute del Vaticano. L'altra grande forza religiosa che poteva sostenere la crociata della Chiesa cattolica era l'Islamismo e la speranza del Papa era infatti quella di forgiare di nuovo una ferrea alleanza con gli esponenti religiosi dell'Islam e così condizionare, ancora una volta, il mondo laico, come gli era già riuscito alla conferenza sulla popolazione tenutasi nel 1994 al Cairo. La cosa sembrava facile perchè i musulmani, anche se erano fin lì rimasti inerti di fronte al problema e poco interessati dalle sue implicazioni teologiche, potevano forse essere convinti ad una militanza più attiva, nel senso voluto dal Vaticano.
L'attesa della comunità scientifica era spasmodica e, naturalmente, i partecipanti alla Conferenza vaticana sulla procreazione umana, com'era stata ufficialmente definita, furono letteralmente assediati dai giornalisti. Giorgio era stato fortunato perchè aveva avuto una forte raccomandazione per il Cardinal Ersili, il quale, persona squisita e consapevole dell'importanza della stampa, fece finta di non sapere del ruolo svolto tempo prima da Giorgio e dal suo giornale nell'indirizzare l'opinione pubblica a favore degli scienziati che si occupavano di gravidanza artificiale e lo fece accreditare immediatamente. Il Cardinale, anzi, durante i lavori della conferenza, lo invitò, una volta, a mangiare un boccone di pranzo con lui, alla mensa predisposta per i delegati e così, arrampicati su due alti sgabelli, i due uomini ebbero la possibilità di conversare in libertà.
"Eminenza, ma sono vere le voci che girano sulla salute del Papa?"
"Solo in parte. Vede, il Santo Padre è abbastanza avanti con l'età ed ha avuto vari guai, alcuni anche piuttosto seri con la sua salute, e non mi riferisco solo al tentativo di assassinio che subì tanti anni fa. Però ci sono tanti suoi coetanei che stanno decisamente peggio, fisicamente, eppure lavorano ancora con profitto ed efficacia. Il problema del santo Padre è psicologico ed è dovuto all'impossibilità obbiettiva di armonizzare queste nuove pratiche di riproduzione con l'insegnamento secolare della Chiesa. È questo che lo turba immensamente!"
"Sì, capisco. Ma, a seguire il papa, il cattolico convinto non ha via d'uscita. Deve rassegnarsi ad estinguersi ed a cedere il pianeta a chi non ha problemi con la riproduzione extrasessuale".
"È proprio questo che turba Sua Santità".
"Eminenza, io ho due bambini, tutti e due nati da un utero artificiale. Tutti e due vengono da ovociti di mia moglie, ma il primo è stato fertilizzato col seme di un altro uomo, prelevatogli poco prima che questi morisse, e il secondo è stato fertilizzato con seme mio. Creda, Eminenza, non c'è nulla di così brutto in questo modo di diventare padri e madri. Anzi, assistere alla formazione del bambino in un vaso di vetro crea, anche nel padre, un attaccamento altrimenti impensabile, di tipo materno, addirittura. L'errore della Chiesa, secondo me, è antico: non avrebbe mai dovuto mettere il Padre Eterno nelle camere da letto delle coppie!"
"Lei, Dottor Malini, crede in Dio?"
"Non lo so..., penso di sì, anche se il mio è un credere in Dio che la scandalizzerà".
"Non c'è niente di scandaloso nel credere in Dio. A che religione appartiene?"
"A nessuna. Forse potrei definirmi un panteista. Vede, Eminenza, io studiavo medicina. Poi una disgrazia in famiglia, legata proprio alla pratica della medicina, ha spinto mia madre ad implorarmi di non continuare. Non seppi dire di no alla sua disperazione e cambiai facoltà..."
"Non deve rinnovare il suo dolore a raccontarmi un fatto che conosco bene. Tutti avevano una grande stima per suo padre".
"Ma m'è rimasta un'inclinazione a pensare in termini biologici ed è in termini biologici che risponderò alla sua domanda.
Vede, Eminenza, qui, nella parte anteriore del mio braccio, c'è un lungo muscolo. Si chiama bicipite. Esso è formato da milioni di cellule, ognuna con la sua individualità, la sua vita, la sua funzione, la sua sinergia con le altre cellule dello stesso muscolo. Ognuna di queste cellule conosce le cellule circonvicine e probabilmente nessuna di queste cellule sa di far parte di un complesso superiore: il muscolo bicipite, appunto.
Ecco, io credo che lei, io, tutte queste persone che ci sono attorno, quel passero là sul balcone, gli alberi, insomma, tutte le cose e gli esseri che popolano l'universo, dai microbi alle galassie, siamo singole cellule di un unico organismo, che è Dio. Con questa concezione di Dio, nella mia personale cosmogonia, non ho bisogno di spiegare l'origine del creato. Non mi serve il big bang degli astrofisici, per far nascere le stelle, perchè, per me, le stelle sono cellule dell'organismo di Dio e Dio è eterno e increato".
"Ingegnoso. Ma come risolve, in questa sua concezione, il problema morale?"
"Molto semplicemente. Se una cellula si pone in disarmonia con le altre, il muscolo si ammala e soffre e questo è male. Quindi, io credo che, ogni volta che ci mettiamo in disarmonia con il nostro ambiente e con il nostro prossimo, noi pecchiamo. E tutto questo si adegua all’antica regola vedica ed evangelica che dice di non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatte a te".
"Sì, ma in questo suo sistema, dove sta la retribuzione, dov'è il premio per i buoni e la punizione per i cattivi?"
"Eminenza, se noi continuiamo a crearci Dio a nostra immagine e somiglianza, allora lo vogliamo giudice e distributore di premi e di punizioni. Ma chi l'ha detto che Dio ci somigli? Una cellula in disarmonia è una cellula malata. Può, cioè, morire ed essere rimpiazzata da altre cellule o da tessuto cicatriziale, nel caso di una ferita. Questa è la sua punizione. Il mio premio è l'intrinseca felicità che provo, quando ho bene agito".
"Beh, caro Dottore, debbo constatare che, in fondo, non è vero che le nuove generazioni siano prive di religiosità. Certo, ad un uomo come me, che ha dedicato tutta la sua vita alla Chiesa, dispiace che una persona della sua religiosità non accetti la Rivelazione, però questo non significa che io la censuri. Ma è ora di rientrare nell'aula per ascoltare che hanno da dire i nostri fratelli musulmani, dai quali il Papa si aspetta l'aiuto più grande per la sua crociata. Andiamo".
Il Papa fu deluso, perchè, all'inizio della seduta pomeridiana, si alzò a parlare un omino dal portamento umilissimo, ma grandemente rispettato da tutto il mondo islamico, il Gran Muftì di Gerusalemme. Le sue parole furono definitive per chiarire l'atteggiamento dell'Islam.
"Venerabili amici, non vi annoierò con molte parole, perchè già troppe ne sono state dette, in questa sede, su questo falso problema.
Chi credete che crei la vita?
La vita la crea Dio, non i medici.
Se la vita non può più svilupparsi come prima, ma può farlo solo nei tubi di vetro dei medici, è Dio ad averlo permesso, non è stato l'uomo a deciderlo.
Chi siamo noi per definire immorale quello che Dio, nella sua imperscrutabilità, permette che avvenga?"
E questo intervento segnò la fine della conferenza.
Fu un colpo devastante per l'equilibrio psichico del vecchio Papa, da cui egli non seppe più riprendersi ed infatti, dopo pochi giorni, i giornali uscirono con una notizia bomba: Papa Wojtyla s'era dimesso dal soglio pontificio ed era subito partito per l'Abbazia di Montecassino, relegandosi in volontario eremitaggio e negandosi a chiunque gli chiedesse un'intervista o un semplice incontro.
Essendo il riserbo vaticano totale e assoluto, circolavano per Roma e per l'Italia le notizie più curiose e più improbabili. Chi diceva che il papa s'era dimesso perchè malatissimo e addirittura in punto di morte, chi diceva che era caduto per le scale riportando un trauma cranico che lo aveva paralizzato, chi parlava di misteriose cospirazioni internazionali della mafia o della CIA.
La verità, invece, era totalmente diversa. Il papa s'era dimesso perchè non riusciva più a sopportare la tensione di non poter razionalizzare nell'ambito della tradizionale dottrina della Chiesa le troppe novità che l'asteroide aveva portato all'umanità e il suo animo era lacerato dai dubbi su quale dovesse essere il magistero pontificio nei confronti dei problemi di etica matrimoniale e sessuale provocati dagli effetti della colonizzazione degli organismi umani da parte degli aminoacidi alieni.
Il problema del papa era teorico, ma interessava le fondamenta stesse dell'odierno cattolicesimo. Tornare indietro e cambiare le leggi morali difese per duemila anni dalla chiesa contro tutto e tutti significava negare di fatto il dogma dell'infallibilità pontificia e minare il principio dell'universalità e generalità della legge morale, relativizzandola. Prendersi questa responsabilità di fronte a Dio e alla storia era troppo per l'anziano pontefice. Era per questo che aveva rinunciato alla tiara e s'era ritirato in continua e solitaria preghiera.
Fu convocato il Conclave, seguendo scrupolosamente le costituzioni regolanti la materia e, naturalmente, in Conclave, avvennero scontri senza quartiere fra innovatori e tradizionalisti. Per questi ultimi, la constatazione che o si legittimava quello che gli innovatori definivano il nuovo modo di nascere o si decretava l'estinzione del genere umano, significava solo ammettere che, evidentemente, Dio aveva deciso che il genere umano dovesse cessare di esistere, perchè
Il fatto più paralizzante era, però, che nè innovatori, nè tradizionalisti avevano una maggioranza sufficiente ad eleggere il nuovo pontefice e, così, le fumate nere si susseguivano l'una all'altra.
Finchè un giorno si alzò a parlare il Cardinale primate dello Zaire: "Venerabili fratelli, sono ormai quattro settimane che siamo riuniti in Conclave. Entrando in questi sacri palazzi, abbiamo chiuso le porte al mondo dietro le nostre spalle e, evidentemente, dobbiamo aver fatto qualcosa che ha sbarrato l'ingresso anche allo Spirito Santo, che, infatti, sembra eluderci.
Abbiamo discusso per tutto il tempo contro o a favore delle vedute opposte dei tradizionalisti e degli innovatori, come se questo fosse un parlamento secolare in cui si deve eleggere un governo che attui un programma predefinito anziché un altro. No, fratelli venerabili, il nostro compito non è quello di stilare un programma di governo per il futuro pontefice. Il nostro compito è quello di eleggere un nuovo pontefice che poi, con l'aiuto dello Spirito Santo, governerà la navicella di Pietro. Io credo che a questo nuovo pontefice noi dovremmo dare una sola indicazione: che si rifaccia all'insegnamento originale dei Padri della Chiesa, ma che li legga direttamente e non tramite le chiose dei cosiddetti esperti, in modo che, fortificato dalla preghiera e guidato dallo Spirito Santo, decida poi quello che deve essere deciso secondo l'ortodossia della Fede".
Il discorso di quest'uomo semplice e genuino fece scalpore fra tutti, innovatori e tradizionalisti. Naturalmente i tradizionalisti e i curiali pensarono di poterlo facilmente strumentalizzare e, così, i due gruppi decisero di far convergere i loro voti sul Cardinale nato nelle foreste del Congo, perchè questi sembrò loro un santo ingenuo che sarebbe quindi stato facile, in futuro, manipolare e controllare.
E finalmente ci fu la fumata bianca.
Tutti i cardinali, meno l'eletto, abbassarono, come prescritto dalla liturgia, i baldacchini che coprivano i loro tronetti ed il Decano del Sacro Collegio si inchinò di fronte al cardinale africano, per riceverne l'accettazione canonica.
Poi venne la domanda rituale, per sapere con che nome l'eletto voleva regnare: "Quomodo quaeris esse vocatus?"
"Kisumba" fu la risposta.
"Come?"
"Kisumba. È il nome che mi fu dato dai miei genitori e dagli anziani del mio villaggio. La nostra Chiesa è cattolica, perchè vuole essere universale; è apostolica, perchè dice di rifarsi all'insegnamento dei discepoli diretti di Cristo; poi si dice romana e questo è un po' in contraddizione con la sua cattolicità. Cerchiamo dunque di essere un po' più cattolici e un po' meno romani, fratelli miei venerabili, ed accettiamo anche nomi non romani, perchè la nostra Chiesa è, in fondo, la Chiesa universale, la Chiesa di tutti e non solo la Chiesa dei romani. Kisumba I andrà benissimo".
E fu così che i romani accalcati in piazza San Pietro ebbero la sorpresa di trovare che il loro nuovo Vescovo era nero di pelle e si chiamava con un nome africano. L'imbarazzo, se poi ce ne fu, durò pochissimo, perchè subito dalla piazza esplose un fragoroso applauso di migliaia di mani, misto a frenetiche urla di "Viva il papa". Forse i romani hanno ancora scritto nel loro codice genetico o, almeno, nel subcosciente della loro memoria, che nell'antica Roma non c'era mai stata alcuna traccia di razzismo e che diversi imperatori erano stati scelti fra gli orgogliosi cittadini romani con la pelle nera, nati nelle regioni africane dell'impero.
Kisumba I passò le prime due settimane del suo regno in preghiera, chiamando vicino a sè soltanto il Cardinale Ersili, in nome di un'antica amicizia, per farsi consigliare, nelle sue prime prese di contatto coi doveri del suo nuovo stato. Non sembrò accorgersi del fatto che stava innervosendo non poco i vari cardinali della curia, ognuno dei quali aveva dei problemi che reputava urgentissimi e su cui voleva istruire il nuovo sommo Pontefice, per fargli prendere le decisioni più appropriate. Questi affaccendati cardinali apparivano sempre più seccati perchè, quando andavano per conferire col Sommo Pontefice, si vedevano silenziosamente additare da lui un inginocchiatoio, per invitarli a unirsi al Papa nelle sue preghiere.
Finalmente, dopo due settimane lunghe come cent'anni per gli indaffarati monsignori della curia, il papa cominciò a dare udienze, sempre col Cardinal Ersili al suo fianco.
I curiali furono un po' seccati dal fatto che il Papa aveva ricevuto, prima di loro, dei laici, fra cui perfino una donna, entrata in Vaticano insieme al Cardinal Ersili, velata ed irriconoscibile.
I primi ecclesiastici ad essere ricevuti furono il Cardinal Vicario uscente, il Cardinale segretario di stato, il cardinale Ratzinger ed il presidente della conferenza episcopale italiana.
"Santità, Berlusconi ci ha promesso formalmente che, se diamo il nostro appoggio alla sua formazione politica e lo aiutiamo a vincere le elezioni, una volta formato il suo nuovo governo, cambierà immediatamente la legislazione italiana per ripenalizzare l'aborto, per abolire il divorzio, per vietare l'immonda pratica delle nascite da uteri artificiali, per finanziare le ricerche della Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica sugli aminoacidi alieni e per finanziare totalmente le istituzioni scolastiche cattoliche con fondi statali. Da Prodi potremmo avere gli stessi impegni. È una situazione per noi estremamente favorevole perchè saremmo noi i veri vincenti, comunque vadano le elezioni, e non ci costerebbe assolutamente nulla avere tutto quello che vogliamo. Però abbiamo pochissimo tempo e dobbiamo muoverci immediatamente. Un'altra cosa che darebbe un forte messaggio è lo stringere i tempi per il processo di canonizzazione di Alcide De Gasperi".
A quelle parole, una risata dai profondi e modulati toni baritonali, piena di vitalità e di buonumore, un suono poco noto nei salotti bene dell'occidente, ma comune nelle riunioni degli anziani nei villaggi africani, si diffuse improvvisamente, echeggiando per gli altrimenti silenziosi corridoi attorno alla biblioteca privata di Sua Santità, dove avveniva il colloquio. Era una risata che, ben presto, sarebbe diventata famosa a Roma: la risata con cui Sua Santità Kisumba I reagiva alle cose che considerava futili.
"Ripenalizzare l'aborto? Abolire il divorzio? Vietare l'unico modo con cui oggi una coppia può avere il dono della prole? Farci dare altri soldi per far diventare un migliore affare l'organizzazione delle scuole cattoliche? Bellissimo! Ma, Eminenze reverendissime, voi credete che in futuro ci sarà qualche donna disposta a rimettersi ad avere gravidanze e a partorire con dolore e fatica, quando può fare figli in laboratorio? Ieri,
Non possiamo produrre santi per legge! In India c’è una comunità religiosa chiamata dei Sikh. Sono abili artigiani, mercanti di successo, agricoltori eccellenti e capaci professionisti, per cui molti di loro raggiungono cariche politiche anche elevate. I Sikh considerano un sacrilegio tagliarsi i capelli o rasarsi e così sfoggiano lussureggianti barbe e portano sotto i loro turbanti lunghissimi capelli. Quando sono stati al potere non si sono mai sognati di introdurre una legislazione per chiudere i negozi dei barbieri in India, imponendo le loro regole anche a gente di diverso credo religioso. Sfortunatamente, noi cristiani abbiamo ripetutamente fatto l’errore che i Sikh sono stati sempre così intelligenti da evitare. Non ho bisogno di ricordarvi che il primo centurione romano ad essere giustiziato per non essere cristiano e per continuare ad adorare gli dei tradizionali di Roma fu decapitato appena 50 anni dopo l’editto di Costantino e che l’imperatore Teodosio, un brillante generale, un grande uomo di stato ed un devoto cristiano, dopo aver sconfitto i Visigoti e riunito ancora sotto il suo scettro l’Impero Romano d’Oriente e quello d’Occidente, promulgò, nell’anno 380, l’editto di Tessalonica con cui vietava ai suoi sudditi di adorare i vecchi idoli romani ed ordinava loro di riconoscere e onorare solo il Dio dei cristiani, se volevano evitare severe punizioni. Sfortunatamente, Teodosio (lo ripeto, un devoto cristiano) non considerò affatto che l’etica cristiana è rigorosamente fondata sul libero arbitrio e pensò onestamente di applicare il volere di Dio. Non c’è quindi da meravigliarsi, con questi precedenti, se, di tanto in tanto, nascono tra noi mostri come Torquemada, Adolf Hitler e Ante Pavelic. Per evitare con certezza nel futuro gli orrori che questa gente sa infliggere all’umanità occorre che insegniamo ai nostri fedeli che è loro dovere morale opporsi fino al martirio ad ogni legge dello stato che li obbligasse a peccare, ma che non debbono mai permettersi alcuna obiezione nei confronti di leggi che permettono il peccato, ma lasciano totalmente liberi tutti coloro che non vogliono peccare di non avvalersi delle possibilità offerte dalla legge. La santità può infatti fiorire soltanto là dove esiste la libertà e la possibilità di peccare! Vedete, voi occidentali accettate senza manifestare la benchè minima meraviglia il fatto che
In quanto alla canonizzazione di Alcide De Gasperi, vorrei invitarvi a qualche considerazione, che, forse, nella fretta, non avete fatta. Per quello che so di lui, mi pare che fosse un uomo degnissimo, onorabile ed onesto, lealmente dedicato al servizio del suo popolo (magari avessimo avuto uomini come lui nei vari paesi africani, alla fine delle colonie!). Mi pare che molti di voi lo considerino l'unico uomo veramente onesto del suo partito che riuscì a raggiungere posizioni di grande potere in Italia.
Anche se egli è sicuramente già in Paradiso, se lo facciamo santo, corriamo il rischio di dare al mondo un messaggio sbagliato. Sarebbe come dire che, se facciamo santo l'unico uomo normale, cioè onesto e onorabile, di un partito che ha governato l'Italia per 50 anni, lo presentiamo al mondo come un'eccezione e così facciamo capire, implicitamente, che sarebbero invece i furfanti, i profittatori, i corruttori, i disonesti ad essere la normalità. Che cattivo servizio che faremmo al secolo! Proprio ieri ho appreso da uno dei giardinieri con cui m’ero fermato a chiacchierare, un bellissimo proverbio dei miei diocesani, i romani, che suona così: ‘Nel regno dei ciechi un guercio impera’. Ora, anche se questo proverbio esprime una profonda verità, ciò non significa che possiamo fare di questo guercio un pilota da caccia!
Quindi, dicano al Cavalier Berlusconi e al Professor Prodi di andare tranquillamente per le loro strade, mentre la Chiesa andrà per la sua.
Se mai volete dare un messaggio a qualcuno, datelo eventualmente al Professor Prodi. Ho sentito dire che, all'inizio della sua attività politica, quando s'è candidato alla presidenza del consiglio per il Centro-sinistra, rispondendo ad un giornalista, dichiarò che, se avesse sentito, come capo del governo, dei conflitti col suo essere cattolico, avrebbe dato le dimissioni. Ebbene, qualcuno dovrebbe dire al Professor Prodi che questo suo atteggiamento sarebbe oltremodo riprovevole, perchè, diventando capo del governo italiano, il suo più alto dovere morale sarebbe quello di difendere con tutte le sue energie gli interessi materiali dell'Italia, anche contro la Chiesa, se necessario.
Vedono, Eminenze, gli italiani debbono imparare, una buona volta, il senso della responsabilità nel compiere i doveri del loro ufficio ed evitare i pastrocchi profondamente disonesti e confusi, in cui sono maestri.
Mi viene qui in mente, per esempio, il pastrocchio fatto all'epoca della legge sull'aborto. Allora il Parlamento italiano decise che, in Italia, le donne, a certe condizioni, potevano abortire e potevano farlo negli ospedali pubblici, anzichè morire a decine nelle fabbriche di aborti clandestini. Però, siccome
Un credente, deve essere pronto a pagare il necessario per la sua fede, ma non ha mai il diritto di imporla agli altri, per poter vivere più comodo!"
Sua Santità Kisumba I rimase per un po' pensieroso, prima di ricominciare a parlare: "Prendendo lo spunto dalla proposta di canonizzazione di De Gasperi, credo che dobbiamo deciderci, prima o poi, a riesaminare un po' tutta la faccenda del culto dei santi in generale.
Voi in occidente, siete nati, cresciuti e vissuti con le categorie mentali del mondo classico greco-romano sempre ben presenti nel vostro subcosciente. Queste categorie mentali a voi appaiono come connaturate alla natura della Chiesa, da quando la Chiesa conquistò il mondo civile, dopo essersi trapiantata a Roma, aver assorbito la latinità (compresi certi aspetti del paganesimo di questa) ed essersi gradualmente sostituita all'impero romano, come autorità centrale riconosciuta da tutti.
Così voi siete abituati ai nominalismi di un pensiero sofisticato e teorizzante come quello della filosofia greca.
Io invece ebbi grossi problemi quando, da giovane prete, predicavo la nostra santa Fede nei villaggi delle foreste del mio paese.
Dicevo alla gente che c'è un solo Dio e che solo Lui deve ricevere la nostra adorazione e che quindi dovevano distruggere i loro tanti idoli e feticci. Poi mi inginocchiavo di fronte al Tabernacolo, di fronte alle immagini dei Santi e a quella della Madonna, bruciando incenso a tutti. Per cui i miei parrocchiani, mi obiettarono abbastanza presto, che, a differenza di quello che dicevo, poi adoravo anch'io tanti dei, o contemporaneamente o uno dopo l'altro, e onoravo feticci, che erano pure stranieri.
Volevo tanto spiegare loro ciò che avevo appreso in Seminario e, cioè, che, nel caso di Dio, si trattava, di culto di adorazione, nel caso dei Santi, di culto di dulia e, nel caso della Madonna, di culto di iperdulia. Ma dove le trovavo le parole per tradurre in lingala, in kiluba o in kiswahili i concetti di dulia e iperdulia, in modo che risultasse chiara la differenza di questi rispetto al concetto di adorazione?
Vedete, Eminenze, la maggior parte delle lingue parlate dai popoli semplici, sanno esprimere benissimo concetti pratici, immediati e ragionevoli, ma, per lo più, non sanno occuparsi dei cerebralismi artificiosi in cui invece eccellono le lingue occidentali che si rifanno al mondo classico greco-latino.
Mi viene in mente un altro problema che ebbi a incontrare durante gli anni del mio ministero in foresta, con quelle squisite e intelligenti creature di Dio che voi europei chiamate volentieri i selvaggi. Voi, figli del classicismo greco-romano, quando parlate del luogo dove vanno i giusti dopo morti, guardate al cielo, perchè, nell'antico mondo giudaico e classico, pensavano che il mondo fosse come un piatto ricoperto dal tetto del cielo e che, perforato questo tetto, si trovasse, al di sopra di esso, la casa di Dio e il paradiso. Da noi non è così. Gli africani delle nostre foreste pensano che gli spiriti degli antenati morti siano nella terra, nell'acqua, negli alberi, nell'aria, nelle cose che ci circondano, dove permangono finchè sono ricordati, per cui ci volle un po' prima che riuscissi a far loro capire che, invece, l'al di là è per noi cristiani un luogo di natura spirituale, senza materialità, di pensiero puro. Comunque, in qualche modo, capirono. Poi però, quando spiegai loro il dogma di Maria Assunta in Cielo, vidi che tutti sgranavano i loro occhi stupefatti e venni subissato di domande piene di preoccupazione. Mi chiesero come facesse Maria a vivere in carne e ossa in un mondo tutto spirituale; dove si trovasse da mangiare, come si procurasse l'acqua, chi le cuciva i vestiti e chi le facesse compagnia. Uno mi chiese, addirittura (e senza mancanza alcuna di rispetto, perchè gli africani non hanno vergogna per le funzioni del corpo), dove andasse al gabinetto e un altro ragionò che, forse, le pannocchie di granturco che ogni tanto mancavano dai suoi campi, le prendeva Maria quando aveva fame...
Vedete, Eminenze, voi occidentali siete, anche se non sempre ve ne accorgete, i diretti figli del paganesimo greco-romano, dove i mortali erano spesso invitati dagli dei nel loro regno soprannaturale in cielo, l'Olimpo, oltre la vetta del Monte Athos. Voi avete quindi tutta l'attrezzatura culturale e psicologica necessaria per non essere turbati dall'idea di Maria Santissima assunta in cielo in carne ed ossa, ma gli africani sono enormemente disturbati e confusi da una cosa del genere (e da tante altre, per questo) per cui, siccome molto presto saranno proprio gli africani senza alcuna esperienza del paganesimo greco-romano ad essere la maggioranza dei cattolici praticanti nel mondo, bisogna che ci occupiamo un po' di più di questi problemi per avviarli a soluzione, se non vogliamo continuare a confondere questi nostri fedeli devotissimi.
Ma, in questo momento, c'è un'altra cosa che mi preme molto. Vorrei che, per amore della pace, proponessimo ai nostri fratelli ebrei e musulmani, di creare a Gerusalemme un complesso religioso in comune, che ospiti cioè la Moschea d'oro, quello che si può ricostruire del vecchio Tempio ebraico e una nostra chiesa, dove tutti, ebrei, cristiani e musulmani, possano andare insieme a pregare, sotto lo stesso tetto.
Poi, potremmo proporre agli israeliani, ai giordani e ai palestinesi di considerare Gerusalemme come la capitale dei loro stati. È una città grande a sufficienza per ospitare tre governi.
Che ne pensate?"
"Ma Padre Santo," rispose il Cardinale Segretario di Stato "istituzionalizzare riti comuni fra noi e gli ebrei sarebbe forse possibile, ma come combinare la nostra liturgia con le superstizioni dei musulmani, la cui religione è stata inventata da un visionario che diceva di parlare nel deserto con l'angelo di Dio?"
"Ma che dice, Eminenza, io sono cresciuto avendo tanti musulmani intorno e le assicuro che sono della brava gente e che hanno una teologia che merita tutto il nostro rispetto.
Vede, Mosè trasmise agli ebrei, sul Monte Sinai, la geniale intuizione avuta dal faraone eretico, Akhenaton, di un unico Dio, increato e creatore, puro pensiero, potenza assoluta, non raffigurabile, non descrivibile, eterno e onnisciente. Ciò fece fare a quel piccolo e solo marginalmente importante popolo un passo teologico gigantesco rispetto al precedente, generalizzato politeismo. Però il Dio di Mosè era, comunque, un Dio tribale e un po' razzista, era il Dio dei soli ebrei, che combatteva insieme con questi contro le tribù nemiche.
Poi è arrivato Gesù che, lottando contro tante opposizioni da parte delle varie denominazioni che incarnavano all'epoca il Giudaismo ufficiale, ha detribalizzato il Dio di Mosè e l'ha reso universale, facendone il Dio di tutti e finendo, proprio per questa sua intuizione, in croce.
In seguito, però, la romanizzazione del Cristianesimo fece perdere a questo Dio il Suo rigoroso carattere monoteistico e di supremo Ente fatto di puro pensiero, l'ha antropomorfizzato e moltiplicato facendolo trino e dipingendolo come un vecchio e barbuto signore con un grande camicione bianco e un improbabile triangolo in bilico sulla testa. Poi gli ha messo intorno una corte di santi, a cui il popolo trasferì subito il rispetto che aveva avuto in precedenza per i semidei dell'Iliade. Gli ha addirittura fatto fare anche un figlio con una donna mortale, seguendo gli usi degli dei dell'Olimpo. Per l'arte è stato un gran bene, come dimostrano le splendide pitture della Cappella Sistina, che vado ad ammirare quasi ogni giorno, ma, per la purezza del pensiero religioso, non lo so.
Infine è venuta la volta dell'Islam. Questa religione è quella che ci ha donato la più alta forma di idealizzazione del concetto di Dio, in cui è riassunta sia l'astrazione concettuale del Dio di Mosè che l'universalità del Dio di Gesù.
Non possiamo non essere grati ai nostri fratelli musulmani per la rarefatta severità concettuale di questa loro idea di Dio. E poi, non dobbiamo continuare a condannare a priori chiunque la pensi diversamente da noi, tant'è vero che, proprio per questo, abbiamo abolito il Sant'Uffizio.
A proposito, Cardinale Ratzinger, a lei deve andare il più sincero grazie della Chiesa per i suoi lunghissimi anni di continua dedizione per la difesa dell'ortodossia cattolica, a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede, un ufficio della Chiesa che Vostra Eminenza ha saputo rendere così potente, temuto e rispettato. Questo suo gigantesco lavoro deve averla provata non poco, certo più di ogni altro prelato al servizio della Chiesa, in altre congregazioni meno importanti. Vostra Eminenza merita certamente un po' di riposo. Perchè non mi dà le sue dimissioni?"
"Certo, Santità, mi consideri dimissionario fin da questo momento, anche se sempre pronto al servizio del Soglio pontificio".
E con queste parole l'udienza ebbe fine.
Al Cardinal Ersili che accompagnava i porporati all'ascensore, questi si rivolsero con aria sbalordita, in cerca di spiegazioni.
"Non so che dire, venerabili fratelli, ma l'Africa ha evidentemente una sua teologia che è molto più fresca, più attenta, più pratica e più umana delle nostre elucubrazioni. Credo proprio che dovremo abituarci ad essa" rispose il buon Cardinal Ersili, ricordandosi improvvisamente di una cena a Nairobi, alcuni anni prima.
L'indomani, Sua Santità Kisumba I convocò un Concistoro in cui creò cardinale il Professor Hans Küng, ordinario di teologia ecumenica all'Università di Tubinga, dopo avere, motu proprio, abolito la sospensione a divinis che gli era stata comminata diversi anni prima, per volere del Cardinal Ratzinger. Chiamò subito a Roma l'ignaro e sbalordito cardinale neo-eletto e lo mise a capo della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede.
Con l'occasione, Sua Santità Kisumba I promulgò solennemente la sua prima enciclica: “Ut qaecumque pagana ex Ecclesiae Domini doctrina exstirpentur ”*.
Poco tempo dopo questi fatti, quando il 1999 cominciava a trovare i colori dell'autunno, gli italiani votarono per rinnovare il loro parlamento.
Le elezioni andarono come tutti sanno e così l'Italia entrò nel nuovo millennio ancora priva di un parlamento composto da membri degni di essere chiamati servitori del popolo.
LA TOMBA IN KASHMIR
Ero andato a salutare il Dr. Malik, il radiologo del mio ospedale, originario del Kashmir, prima di partire per l'India.
"Vai anche in Kashmir?"
"Sì, penso proprio di andarci, questa volta".
Non era la prima volta che andavo in India per giocare a polo con la squadra del mio club. Ogni volta, alla fine di ogni torneo, mi lasciavo sempre del tempo per esplorare quello che potevo di questo immenso Paese, capace di sorprenderti sempre di più, ogni volta che ci vai. Però, per una ragione o per un'altra, non m'era mai riuscito di andare in Kashmir. Addirittura, una volta, anni fa, mi scoppiò un'epatite virale due giorni prima della partenza da Nairobi e, naturalmente, dovetti rinunciare alla vacanza programmata, secondo le buone tradizioni turistiche locali, in una casa galleggiante sul lago di Srinagar, la capitale della regione.
Questa volta però avrei dovuto farcela, perchè avevamo diversi giorni liberi, dopo l'ultima partita con i Manipoori.
"Quando ti trovi a Srinagar, devi assolutamente trovare il tempo per incontrare mio cugino. A parte il fatto che ti potrà essere utile per un mucchio di cose, digli che vuoi visitare la tomba e parlare col custode. Ti garantisco che rimarrai sorpreso".
"Che tomba?" domandai.
"I musulmani ci vanno volentieri a pregare sopra".
"Sì, ho capito, ma chi c'è sepolto?"
"Un principe famoso" mi disse, ma ogni mia domanda per ottenere una qualche ulteriore informazione su questo principe era stata inutile. Malik si dimostrò irremovibile e continuò a dirmi sorridendo in modo sardonico: "Ti assicuro che ne varrà la pena".
Così, arrivato a Srinagar, prima ancora di prendere possesso della casa galleggiante sul lago, dove avrei abitato nei giorni seguenti, mi informai dal volenteroso impiegato indù dell'agenzia locale dell'ufficio turistico che mi aveva organizzata la visita, circa una tomba su cui i musulmani vanno volentieri a pregare e questi mi parlò subito del famoso Hazrat Bal. Comunque, telefonai subito al cugino del mio collega, che si precipitò a prelevarmi e fu gentilissimo ed ospitale, come solo gli orientali di buona famiglia sanno esserlo. Quando gli dissi che il cugino mi aveva mandato da lui per farmi portare a visitare la tomba Hazrat Bal, quello mi rispose stupito che Hazrat Bal non era una tomba, ma un reliquiario dove viene conservato un pelo della barba del Profeta e mi disse che, se suo cugino mi aveva parlato di una tomba che avrei sicuramente trovato interessante, certamente doveva essersi riferito a tutt'altro e mi disse di immaginare benissimo a che cosa. Anche lui non si sbottonò di più, però mi promise che, l'indomani, mi avrebbe mandato un tassì, perchè, purtroppo, lui era legato da impegni di lavoro che non poteva disdire. Avrebbe, comunque, detto all'autista di consegnarmi a un certo Yusuf Daud, il guardiano della tomba in questione.
"È una tomba molto semplice, intorno alla quale c'è un piccolo edificio senza pretese, costruito in epoca molto posteriore alla tomba stessa. Non si aspetti di trovare il Taj Mahal" mi disse. "Un tempo era in campagna, ma, con l'ingrandirsi della città, ora si trova su una strada di discreto traffico, Khan Yar Street".
L'indomani, di buon'ora, trovai il promesso tassì ad aspettarmi dove mi era stato spiegato e, in poco tempo, arrivai alla meta.
L'autista del tassì mi disse di aspettare nell'auto, mentre lui sarebbe andato a cercare questo Yusuf Daud, il guardiano della tomba.
Mi aspettavo il solito scalcinato custode, affamato di rupie, che si incontra vicino a qualsiasi monumento in India ed ebbi la prima sorpresa. Era un uomo ben vestito, gradevolissimo, con una bella barba alla nazarena, che lo faceva rassomigliare all'immagine del Creatore, almeno come se l’era figurato Michelangelo, mentre dipingeva
Era laureato in teologia islamica al Cairo e in lingue orientali antiche ad Oxford e viveva in una modesta, ma pulitissima casa, ingombra di libri e riviste in ogni lingua, compreso l'ebraico, con una moglie e un figlio in tenera età.
Come si usa nel mondo inglese fra persone di analogo livello culturale o della stessa classe sociale, passammo, subito dopo i soliti convenevoli, a chiamarci per nome proprio, per cui, nel riferire i nostri colloqui in italiano, userò il tu, benchè l'inglese, lingua che Yusuf parlava con eleganza oxfordiana, usi sempre soltanto il voi.
"Così sei venuto a visitare la Tomba. Ma chi te ne ha parlato?"
"Un collega di Nairobi, originario di qui".
"È musulmano sunnita?"
"Sì"
"Ah, ecco perchè conosce
E mi indicò una costruzione ad un piano, con un tetto di lamiera ondulata, delimitata da un muretto di pietre su cui si ergeva una staccionata qua e là cadente, simile a tante costruzioni che si vedono in India e che possono essere case abitate, piccoli luoghi di culto, negozi o magazzini. In quel momento doveva essere chiusa, perchè vicino c'era un solitario credente che, prostrato sul suo bel tappetino da preghiera, si inchinava in direzione della Mecca, pregando con la devozione e la concentrazione con cui solo i musulmani veri sanno pregare.
"È la storia di chi è sepolto in quella tomba che potrà forse interessarti.
He is one of my ancestors. Actually, the first one of my family to settle here in
Veniva dalla Palestina, come tanti di qui. Non so se lo sai, ma da noi ci si tramanda di padre in figlio la nozione che noi siamo i discendenti diretti delle tribù perdute d'Israele. Anzi, i Kashmiri non sono i soli ad avere questa origine, perchè anche i Patan (i famosi guerrieri del Khyber Pass, che tanti guai dettero agli Inglesi, quando questi erano i padroni dell'India) hanno fattezze israelite e nomi di famiglia ebraici antichi. Si tratta infatti dei discendenti diretti degli ebrei che Nabuccodonosor portò via come ostaggi, dopo aver conquistato e distrutto la Samaria, e che poi, alla morte di quel sovrano, scesero dalla Media verso l'Afghanistan e arrivarono fin qui per spingersi poi ancora più a sud, nel cuore del subcontinente indiano.
Devi sapere che, durante il primo secolo avanti Cristo, gli ebrei in Palestina erano tutti in preda ad una folle e generalizzata euforia. Prima di tutto, si aspettavano che ben presto sarebbe successo qualcosa di cataclismico, probabilmente l'arrivo di un messia inviato da Dio, che li avrebbe liberati dal dominio romano ed avrebbe loro permesso la fondazione di un regno universale di Israele, destinato a controllare il resto della terra, Roma compresa, fino alla fine del mondo.
Il popolo ebraico era allora diviso in sette e partiti che si distinguevano secondo intricatissime linee, non sempre ben definite.
C'erano, anzitutto, gli ebrei ortodossi e tradizionalisti. Questi usavano, per il culto, l'ebraico e non permettevano alle donne alcun ruolo liturgico. Erano dei pignoli applicatori della legge, un po' razzisti, forse, che consideravano i convertiti gentili come correligionari di rango inferiore, si potrebbe dire, appena tollerati e, quindi, indegni di partecipare alle loro agapi rituali. Accettavano, per ruoli sacerdotali, solo uomini nati nella tribù di Levi (come sai, il sacerdozio, per gli ebrei, non era una professione, ma una funzione che veniva espletata a turno un po' da tutti quelli a cui ne veniva riconosciuto il diritto).
C'erano poi gli ebrei ellenizzati, più evoluti, più liberi pensatori, più moderni. Questi usavano per la liturgia il greco, consideravano i convertiti come correligionari di pari rango rispetto agli ebrei etnici (e i convertiti erano tanti, anche nella stessa Roma, perché nell’Impero, la gente educata, era irresistibilmente attratta dall'idea ebraica dell'esistenza di un solo Dio, impensabile, indescrivibile, irrappresentabile, onnipotente, fonte di tutto, idea pura, una concezione che era in così netto contrasto con le mille ridicole divinità del pantheon greco-romano, pensate come esseri umani nemmeno tanto nobili, capaci di litigare fra loro come serve e che, quindi, apparivano inaccettabili a gente di cultura, che era stata abituata al pensiero astratto dall’insegnamento dei filosofi greci).
Gli ebrei ellenizzati non solo accettavano sacerdoti non nati nella tribù di Levi, ma permettevano anche alle donne di compartecipare ai riti liturgici, influenzati in questo dal mondo greco-romano, che aveva tanti culti condotti da rispettatissime sacerdotesse.
Un'altra linea di divisione era data dal contrasto d’opinioni su chi dovesse essere il re del sognato regno universale d'Israele, se, cioè, il trono dovesse spettare a uno degli Erodiadi, famiglia ebraica messa sul trono dai Romani, o se non si dovesse invece restaurare l'antica dinastia del biblico Re Davide.
C'era poi il problema del ruolo religioso riservato al re. Era il re sottoposto ai sacerdoti o erano questi sottoposti a lui? Poteva il re riunire in sè, contempo-raneamente, la dignità reale e quella sacerdotale?
Vicino a coloro che si accapigliavano per via di questi problemi, diciamo così, ideologici e dinastici, c'erano, poi, gli zeloti, membri di un partito militante, che volevano una guerra di liberazione contro Roma, in contrasto con i pacifisti, che, invece, si aspettavano la rinascita di Israele sarebbe avventa per virtù di un dono di Dio.
E così via litigando a non finire, non sempre in modo solo accademico.
I Romani, come sai, erano molto liberali in questioni di religione e non mettevano mai il naso in diatribe a sfondo religioso o dinastico teorico, almeno fino a che le cose fossero rimaste sul piano delle chiacchiere innocenti che non mettevano in discussione il potere imperiale e le leggi di Roma, perchè, quando questo avveniva, allora erano guai seri e le punizioni previste per i ribelli erano immediate e spietate. La gravitas romana poteva infatti accettare l'idea ebraica di Dio senza fare una piega e magari con garbato interesse, anche se questa era in contrasto con la tradizionale religione di stato, ma non poteva assolutamente tollerare che si mettessero in discussione le leggi e gli ordinamenti di Roma.
C'era poi un'ulteriore divisione del popolo ebraico, in tre sette principali, l’una in polemica con l’altra e tutte, più o meno, in polemica con i romani, i quali tendevano gradualmente, ma inesorabilmente, ad estendere e rafforzare il loro controllo amministrativo, politico e strategico sul territorio. Queste sette erano i Farisei, i Sadducei e gli Esseni.
L’ultima di queste sette, gli Esseni, costituiva un esempio di peculiare società iniziatica quasi monastica, chiusa, ritualistica e rigida nella morale e nel modo di vivere.
Gli Esseni facevano un grande uso di acqua, per lavaggi rituali e cerimonie battesimali a scopo purificatorio. Erano complicatissimi in questi loro riti. Figurati che avevano classificato anche le acque, per quanto riguardava il loro grado di purezza rituale e consideravano l'acqua dolce di sorgente come la più pura, mentre l'acqua di mare, specie poi quella del Mar Morto, era la meno nobile.
Per quanto riguarda la loro architettura pubblica, tutto aveva un significato simbolico. Per esempio, la spianata al di fuori del loro tempio era suddivisa in sezioni e ognuna di queste sezioni era riservata alla particolare preghiera prevista per una particolare ora, sicchè, semplicemente dicendo un'ora, si poteva indicare un preciso luogo della piazza.
Naturalmente, alcuni dei fondatori della setta e molti degli iniziati di grado più elevato erano pure un po' razzisti, come del resto anche molti ebrei anche di altre sette (ma come fa uno a non diventare un po’ razzista quando, per migliaia di anni, si è sentito dire che lui apparteneva al popolo scelto e preferito da Dio, al Popolo Eletto, all'unico popolo, cioè, che con Dio aveva stretto un solenne patto, di cui l'Arca dell’Alleanza era stata pegno e testimonianza?).
La setta degli Esseni era nata come reazione degli ebrei ortodossi contro i re Maccabei, quando questi, con un colpo di mano, si erano assunti anche la carica di grandi sacerdoti.
Un importante centro religioso ed amministrativo degli Esseni era situato a Khirbet Qumran, all'estremo nord-occidentale del Mar Morto.
Qumran era, per gli Esseni, la loro Gerusalemme ideale e incontaminata, il loro centro religioso e spirituale, opposto alla Gerusalemme geografica, ormai divenuta indegna, ai loro occhi, di essere il centro della religione rivelata da Dio al suo popolo. E infatti, spesso chiamavano Qumran col nome di Gerusalemme, ma ne usavano il nome al plurale, una figura retorica caratteristica della loro lingua, che viene impiegata, facendola seguire dal verbo al singolare, come la sintassi della loro lingua vuole che si faccia quando un termine è usato in senso traslato e figurato.
A Qumran, dal 100 A. C. circa fino all'epoca della seconda rivolta ebraica contro Roma, che avvenne nel 70 d. C., fiorì la più straordinaria comunità religioso-iniziatica che uno si possa immaginare e a Qumran si inizia la storia del mio antenato sepolto là fuori.
Non che a Qumran vivessero solo gli Esseni. Questi erano la maggioranza ed erano, in pratica, i padroni di casa, ma con loro, mescolati o vicini, vivevano anche membri di altre sette religiose o politiche, simpatizzanti e convertiti, alcuni dei quali neppure originariamente ebrei. In comune, tutta questa gente aveva una sola cosa: l'attesa messianica dei grandi cambiamenti politici che avrebbero portato alla rifondazione di un nuovo regno ebraico, con sovranità sull'intero mondo.
Quanto ai mezzi per far attuare questo sogno, anche a Qumran le opinioni erano diverse, come in tutto il resto della Palestina. Infatti, così come ovunque, anche a Qumran c'erano quelli secondo cui bastavano le preghiere perchè Dio stesso avrebbe direttamente provveduto a far riacquistare a Israele la sua grandezza, quando i tempi fossero stati maturi, mentre altri ancora credevano che bisognasse invece fare qualcosa di attivo, anche con le armi in pugno, perchè le comuni speranze si verificassero.
Gli Esseni e i loro adepti vivevano in edifici, in tende ed in caverne e si riunivano nel centro comunitario di Qumran, per attività sociali, religiose e di studio.
Gli edifici che formavano questo centro comunitario erano costruiti rispettando in modo rigoroso, come ti ho già detto, le regole ebraiche di purità rituale ed ogni edificio, ogni angolo, ogni colonna e, si può dire, ogni metro quadrato di questo centro, aveva un significato esoterico preciso, nascosto agli estranei, ma perfettamente noto agli iniziati.
Gli stessi edifici che ospitavano le singole comunità di adepti, prendevano il nome dai luoghi geografici da cui le singole comunità provenivano, secondo un uso comune alle lingue orientali antiche e moderne (qui c'è una comunità di Farsi persiani e, per esempio, quando andiamo a cena da uno di loro, diciamo, colloquialmente, che andiamo in Persia).
Nel centro vivevano i grandi sacerdoti, i leviti, gli iniziati, le donne adulte promesse spose anche se non ancora maritate (chiamate 'le vergini'), le donne vedove o i cui mariti erano lontani, i bambini in crescita, compresi gli illegittimi (che venivano chiamati gli agnelli di Dio e venivano allevati insieme con gli altri), i servitori e gli addetti ai vari servizi.
Un posto speciale veniva riservato agli iniziandi.
C'era poi la massa dei credenti, ma non iniziati, che gravitavano intorno alla comunità.
Naturalmente, al centro c'era il Tempio, attorno al quale ruotava l'intera attività comunitaria.
Caratteristica del tempio era la possibilità di aprirne una metà del tetto, cosa che veniva fatta, di regola, al momento delle preghiere rituali, quando il buio dell'interno del tempio veniva improvvisamente squarciato dal sole che, specie per le preghiere di mezzogiorno, riempiva gli occhi dei fedeli, che vedevano perciò il grande sacerdote che conduceva la preghiera comune dall'alto, come un angelo, circonfuso di una luce che abbagliava chi era nel tempio e che doveva loro sembrare quasi divina (da qui l'uso di chiamare 'angeli', nel linguaggio esoterico della setta, i sacerdoti ed i leviti).
La comunità era governata da un gruppo di dodici laici e da tre grandi sacerdoti, con i quali sedeva l'erede degli antichi re della dinastia di Davide, che la comunità sognava di restaurare un giorno sul trono di Israele, ma che i sacerdoti cercavano di tenere in una posizione di sudditanza, col pretesto ideologico che un sacerdote è certamente più vicino a Dio di chiunque altro, compreso un re, ma, in realtà, per assicurarsi il controllo politico e amministrativo della comunità. C'era un supervisore delle finanze della setta e uno incaricato del proselitismo.
Tutti prestavano la massima reverenza al cosiddetto 'Maestro di rettitudine', come veniva chiamato il capo spirituale della setta.
Da ciascun membro a pieno diritto, la setta si aspettava l'obbedienza assoluta alle regole, che erano improntate al più rigido ascetismo e rese particolarmente difficili per una generale ed estrema pignoleria rituale.
L'iniziazione avveniva per gradi successivi, un po' come succede oggi nella massoneria.
In una società del genere, celibataria per principio e schiava di un rituale preciso, complesso e puntiglioso (pensa che nel sabato, giornata consacrata a Dio, non potevano andare di corpo, pena la perdita della purità necessaria per poter pregare; non potevano sollevare un peso, per esempio, una pietra, anche se potevano farlo rotolare per scansarlo; le donne mestruate non potevano prendere parte ai riti e alle preghiere; la malattia era considerata come uno stato di impurità e un lebbroso, per esempio, non poteva essere ammesso nel tempio al cospetto del suo Dio) è facile immaginarsi le tensioni sotterranee che si sviluppavano, per l'ottenimento di gradi di personale prestigio, che ponessero un singolo al di sopra della massa.
Questo maggiore prestigio si acquisiva per lo più, nel formalismo esoterico di un ambiente così bigotto, mediante l'esibizione di un'ortodossia sempre più rigida e cercando conferma alla bontà del proprio agire e del proprio pensiero in presunte manifestazioni o segni della volontà di Dio, che si verificavano sotto forma di avvenimenti o prodigi. Quando questi segni presunti della volontà di Dio facevano considerare previsioni che erano state azzeccate per puro caso, come vere e proprie profezie avverate, questo fruttava all'autore della profezia una grande autorità ed il diritto di ascendere, prima o poi, alla pienezza del sacerdozio e, quindi, del potere.
Parliamo, perciò, di lotte sotterranee, talvolta di inaudita violenza, anche se sempre condotte con la dignità di appartenenti ad un rispettatissimo rito iniziatico, da gente profondamente e fanaticamente religiosa, che si considerava come la crema del popolo eletto.
Naturalmente una costante obbligatoria di queste tensioni sotterranee era, come ti dicevo prima, la lotta inespressa a chiare parole fra erede reale e sacerdoti, per il predomini pratico, ma anche morale e, dato che la tradizione riservava al re e ai suoi discendenti una certa funzione liturgica e certi doveri di tipo sacerdotale, che i sacerdoti tendevano, però, a minimizzare, mentre i membri della famiglia reale tendevano a valorizzare al massimo.
Le basi finanziarie della comunità erano piuttosto solide ed esse si innestavano inestricabilmente sull'attività di proselitismo, che aveva lo scopo di produrre un numero ben determinato di membri della comunità, un numero, cioè, ritenuto sufficiente a realizzare il sogno della setta di riuscire a formare la sognata entità religiosa e politica potente e indipendente, specialmente nei confronti degli ingombranti Romani, ineluttabilmente destinata dai disegni divini a governare tutta la terra, prima della fine del mondo. Gli aspiranti adepti venivano organizzati in gruppi di cento; ogni gruppo era sotto la guida di un educatore e doveva produrre per le casse della comunità, una volta terminato il periodo di formazione, cento mezzi shekels, come tassa di iniziazione. Per cui la comunità aveva accumulato, col tempo, mezzi finanziari di rispettabile entità.
I vari nuovi adepti erano suddivisi in dodici ordini, ciascuno dei quali prendeva il nome da una delle dodici tradizionali tribù d'Israele e ognuno riceveva, al momento dell'iniziazione, una pietra rituale ed un nuovo nome. A questo punto, si diceva di questi adepti che essi 'nascevano' e che erano entrati nella ‘Via’.
Gli Esseni erano un po' peculiari nei loro rapporti col sesso. Essi ritenevano che il sesso fosse sempre e comunque impuro e riprovevole e che l'ideale per un essere umano fosse una vita rigorosamente celibataria. Però si rendevano conto che, se tutti fossero vissuti in castità assoluta, la razza umana, o, per lo meno, la loro setta e la famiglia reale di cui erano i campioni, si sarebbero estinte e, così, permettevano agli iniziati una minima attività sessuale, rigorosamente limitata nel tempo, governata da precisi rituali e col solo ed esclusivo scopo di procreare, un'operazione che, ahimè, non poteva essere fatta altro che facendo accoppiare un uomo ed una donna. L'impurità intrinseca dei rapporti di coppia veniva, insomma, tollerata come una temporanea iattura, purtroppo necessaria per assicurare la continuazione della specie.
Per garantirsi la discendenza, ad una determinata età, un essene iniziato e con particolari doveri dinastici, incominciava a pensare al suo matrimonio e otteneva il permesso di fidanzarsi. Questo fidanzamento poteva durare anche diversi anni ed era, in pratica, irreversibile.
Le fidanzate dovevano naturalmente appartenere alla stessa comunità. Esse vivevano tutte insieme, come fossero in un convento, nella Casa delle vergini, un'espressione perfettamente plausibile in un mondo permeato di ellenismo e che quindi aveva ben chiaro davanti a sè il modello greco-romano delle 'vergini vestali'.
Finalmente, ad un certo punto, veniva celebrato il matrimonio vero e proprio, che permetteva di avere rapporti sessuali, anche se non subito dopo la cerimonia. Siccome, per motivi rituali e di computo generazionale che sarebbe troppo lungo e noioso spiegare, ma che possono essere letti in qualsiasi testo specializzato sugli Esseni, questi ritenevano necessario che il primo figlio nascesse quando il padre aveva 37 anni, il matrimonio veniva celebrato, all'età più opportuna. Si sceglieva sempre il santo mese di settembre, ma la consumazione del matrimonio poteva avvenire solo nel successivo dicembre, mese che, non avendo solennità religiose richiedenti uno stato di purificazione, riduceva il danno causato dall'intrinseca impurità dei rapporti di coppia ad un minimo tollerabile. Al terzo mese di gravidanza, quindi nel successivo marzo, si celebrava il matrimonio definitivo, subito dopo il quale, l'uomo tornava nella sua comunità di celibi, mentre la donna andava a vivere con le altre donne sposate e con i relativi figli nella Casa delle vergini.
Se nasceva una bambina, l'uomo riceveva una nuova licenza matrimoniale dopo 3 anni, in modo da aumentare così la probabilità che, entro il termine generazionale classico di 40 anni, egli potesse generare un figlio maschio. Se invece il maschio nasceva subito, dalla prima gravidanza, allora la nuova licenza matrimoniale veniva concessa solo dopo 6 anni.
Il mio antenato lì sepolto, nacque nell'anno 7 a. C. e la sua nascita suscitò scalpore perchè avvenne in marzo, anzichè nel previsto, rituale settembre, il che significava che era stato illegittimamente concepito durante il cosiddetto fidanzamento e, quindi, prima del primo matrimonio dei suoi genitori.
Come tutti i figli nati in questo modo, anche lui veniva chiamato, con un po' di derisione, il figlio della vergine. Comunque, i suoi genitori, su consiglio dei capi della comunità, celebrarono subito dopo la sua nascita il secondo matrimonio, saltando cioè il primo, in mondo da assicurare al neonato la legittimità dinastica necessaria perchè potesse essere riconosciuto come erede apparente di suo padre.
Questa legittimità era necessaria anche perchè suo padre acquisisse lo stato di piena maturità, che veniva conseguito solo dopo una legittima paternità e, siccome presso gli Esseni il fidanzamento era considerato definitivo e non scindibile, a rigore di termini, il piccolo andava comunque considerato legittimo. Solo che, a causa delle continue lotte intestine della setta per il predominio sulla comunità, questa storia della sua nascita in un mese non perfettamente rituale, finì col perseguitarlo per tutta la sua vita a Qumran, nel senso che, quando il grande sacerdote in carica gli era amico, allora gli veniva pienamente riconosciuto il suo ruolo ereditario, mentre, quando il grande sacerdote lo sentiva critico o contrario alle sue idee teologiche, politiche o amministrative, allora gli diventava ostile e veniva subito fuori che lui, in fondo, era bastardo e quindi gli veniva preferito, nelle funzioni ufficiali, il suo fratello minore, nato invece nella piena legittimità del matrimonio, sei anni dopo di lui.
Il mio antenato crebbe nella comunità e venne educato secondo le regole di questa. Fu sua madre a sovrintendere, almeno all'inizio, alla sua educazione, perchè suo padre viveva in seclusione. Oltre tutto, per un certo periodo, il padre era stato costretto a non dare troppo nell'occhio perchè, aveva partecipato alla protesta nazionalistica dei Farisei contro il re imposto dai Romani, nell'anno 5 a. C., quando si era alleato con il capo della setta egiziana dei Terapeuti, a quel tempo, dominante a Qumran. I Terapeuti protessero, con grande cura, padre e figlio, fino a che il loro persecutore non morì e la sua famiglia si indebolì perchè gli eredi incominciarono subito una lotta senza quartiere tra di loro per la successione.
Tutto questo avvenne quando l'uomo seppellito in quella tomba aveva 6 anni, cioè quando suo padre si rasò di nuovo la barba, simbolo di vita celibataria, si scorciò i capelli, rinnovò il suo matrimonio tornando, brevemente, in famiglia e generò il suo secondo figlio, che infatti nacque nell'anno 1 dell'era volgare.
Durante la sua infanzia, il mio antenato sepolto là fuori crebbe sotto la protezione della comunità di Qumran, ma, all'inizio della sua adolescenza, per maggior sicurezza, venne affidato a mercanti e carovanieri che lo condussero in paesi lontani, tenendolo così al sicuro dai nemici di suo padre. Probabilmente, questa decisione fu presa non solo per motivi di sicurezza, ma anche per integrare la sua educazione, perchè, infatti, i vagabondaggi di quegli anni si dimostrarono importantissimi per la sua formazione. Egli fu, sicuramente, nell'Iran e nell'Afghanistan dei nostri giorni, paesi dove fu sorpreso di trovare una varietà di popoli d'origine ebraica, non tutti rimasti fedeli all'ortodossia.
Questi erano i discendenti degli ostaggi che Nabuccodonosor aveva portato con sè e che trapiantò nella Media, l'Iran d'oggi, dopo aver devastato
Visitando quelle genti, l'uomo qui sepolto si rese conto dell'importanza di questa migrazione e apprese che altre numerosissime comunità originariamente ebraiche vivevano oltre l'Hindu Kush e il Passo del Khyber, sparse un po' dovunque nel subcontinente indiano. Anzi, egli fu talmente colpito dall’enormità del problema di come recuperare questa gente all'ortodossia della fede o come aiutarli a mantenersi in questa ortodossia proteggendoli dalle pratiche pagane dei popoli con cui si erano mescolati, che, anche per fedeltà ai suoi doveri dinastici, dedicò gran parte delle sue energie, nel corso della sua lunga vita, al perseguimento di questi scopi, sia direttamente, sia invitando di continuo i suoi seguaci ad occuparsi di queste displaced persons, come sarebbero oggi chiamate dalle Nazioni Unite, e che lui definiva invece, molto più poeticamente, come le perdute pecore di Israele.
I lunghi periodi da lui passati nel continente indiano lo portarono a contatto con altre culture, come quella vedica, che influenzarono notevolmente il suo modo di pensare e le sue concezioni filosofiche.
Tornato a Qumran, temprato nello spirito e nel corpo dai suoi lunghi viaggi, il mio antenato, all'età di venti anni, dovette scegliere, in teoria come tutti, se entrare nel mondo e mettere su famiglia o se unirsi alla ristretta ed esoterica comunità celibataria che costituiva l'élite della setta. Naturalmente quest'ultima fu per lui una scelta obbligata, perchè, nel primo caso, avrebbe dovuto rinunciare ai suoi diritti dinastici.
Egli ricevette così la sua iniziazione all'età di 23 anni, quando, uscito ritualmente dalla famiglia ed entrato nel tempio, fu ammesso, per la prima volta, all'agape degli iniziati, dei sacerdoti, degli accoliti e dei celibatari della setta, e cioè all'assunzione rituale e fraterna, che avveniva alla fine di ogni pasto in comune, dei frutti più genuini della terra, l'acqua, il pane ed il vino, opportunamente benedetti dal sacerdote officiante, secondo un rito proprio del tempo, praticato non solo dagli Esseni, ma pure da tantissime altre sette religiose prosperanti nel Medio Oriente, talune anche pagane.
Prendere parte per la prima volta a questo sacro pasto era un evento che trasformava idealmente un bambino in un uomo.
Seguì alla sua iniziazione un periodo di quattro anni di intenso studio e di meditazione che lo condusse, quando aveva ventisette anni, ad incominciare il suo servizio religioso al tempio, facendolo ascendere a ruoli sacerdotali più alti al suo trentesimo anno.
Tuttavia, siccome a causa anche dei suoi precisi doveri dinastici, doveva mettere al mondo almeno un erede, all'età canonica di 36 anni prevista dagli usi della setta, avrebbe dovuto anche lui temporaneamente lasciare l'ascetismo della sua comunità e vivere brevemente nel mondo dei comuni mortali.
Grandi cambiamenti erano nel frattempo avvenuti nel mondo politico di allora.
Quando il mio antenato aveva 21 anni, a Roma fu nominato imperatore Tiberio e questi, uomo intelligente e buon politico, si era subito adoperato per creare un clima di amicizia con i suoi sudditi ebrei, tanto che Antipas, il tetrarca di Galilea in carica, aveva voluto onorarlo intitolandogli la città di Tiberiade.
Questo clima di amicizia fra Ebrei e kittim, come i Romani venivano chiamati dagli Ebrei, fece sì che gli adepti della comunità di Qumran d'origine non ebraica, i convertiti cioè d'origine gentile che erano stati fino ad allora tenuti in posizione subordinata e per la cui equiparazione agli ebrei etnici il mio antenato lottò per tutta la sua vita, acquisirono maggiore considerazione e maggiore voce in capitolo.
A quel tempo, grande sacerdote di Qumran era un vecchio saggio di nome Eleazar, che ispirava tutta la sua politica al mantenimento della pace con Roma e all'amicizia coi Gentili, in questo seguito con convinzione dal mio antenato, il quale si trovò per breve tempo, alla morte cioè di suo nonno, a godere, con Eleazar a capo del tempio, della pienezza della sua dignità di principe ereditario. Questo durò poco però, perchè, quando fu eletto alla carica di grande sacerdote un fariseo seguace di Boethus, persona ostile al mio antenato e a quello che egli rappresentava e ostile alla politica illuminata di Eleazar, con la solita scusa dell’illegittimità della sua nascita, gli fu preferito suo fratello nel ruolo di principe ereditario, anche se secondo nato, e lui fu retrocesso e sbeffeggiato col titolo poco lusinghiero di 'uomo della menzogna', come si può leggere nei rotoli di pergamene dell'epoca, trovati qualche anno fa in una caverna vicino a Qumran.
Nell'anno 23 d. C., morì anche suo padre e, così, sua madre, da donna vecchia e rispettata, potè dedicarsi a tempo pieno al ministero religioso nell'Ordine delle vedove, sotto la direzione del capo degli Scribi.
Questi fatti, ovviamente, crearono momentaneamente un panorama politico nettamente sfavorevole al mio antenato. Infatti, ove la comunità iniziatica fosse riuscita proprio in quel momento nel suo intento segreto di fondare l'agognato regno universale di Israele, suo fratello ne sarebbe stato il re e la fazione razzista avrebbe avuto una completa vittoria, con la relegazione dei convertiti non ebrei, i cosiddetti gentili, in una posizione subordinata per rango ed inferiore per dignità.
Questa situazione fu in qualche modo modificata dal ritorno a Qumran, nell'anno 26 d. C., del Maestro di rettitudine, il vecchio capo carismatico della comunità. Questi, anni prima, probabilmente rigettato dalla cricca sacerdotale dominante in quel momento, che aveva abbracciato opinioni zelote e intendeva opporsi attivamente, anche con le armi in pugno, a Roma, aveva rotto con la tradizione monastica e la vita comunitaria tipica degli Esseni, scegliendo invece una vita di ascesi, di povertà e di eremitica solitudine nel deserto. Il Maestro di rettitudine aveva infatti sempre pensato che non si dovesse fare alcuna guerra ai romani, perchè, quando i tempi sarebbero stati maturi, il Signore Iddio stesso, Re degli eserciti e alleato naturale del popolo ebraico, avrebbe pensato ad inviare i suoi angeli vendicatori per chiudere definitivamente la partita con l'ordine vecchio ed inaugurare il nuovo ordine di Dio, in modo che i figli della luce potessero avere la loro vittoria sui figli delle tenebre.
Il Maestro di rettitudine era un potente e ispirato oratore e, convinto che questo miracoloso intervento del cielo sarebbe avvenuto fra l'anno 29 e l'anno 31 d. C., riuscì a ispirare nelle masse una cieca fiducia in questa sua profezia e a creare così un elettrico stato di incertezza, di fervore e di generale, trepida aspettazione, forse irripetibile e, fino ad ora, irripetuto nella storia. (Al Maestro di rettitudine andò male però, perchè, quando la profezia mancò di avverarsi, fu scomunicato dal clero del tempio e convenientemente tolto di torno da uno degli Erodiadi, che egli aveva accusato di empietà, per aver questi sposato una donna che era già moglie di un suo fratellastro).
Oltre alla predicazione infiammante del Maestro di rettitudine, un altro fatto offese a morte le masse ebraiche di quel tempo e le galvanizzò contro Roma: l'espulsione degli ebrei dalla capitale dell'Impero, avvenuta, per diretto ordine di Tiberio, proprio in quello stesso periodo.
Questa espulsione, per la verità, fu più che giustificata, perchè fu causata da uno scandalo del tipo a cui i socialisti di Craxi, in Italia, e la famiglia Gandhi col Partito del Congresso, in India, hanno abituato i cittadini di questi due Paesi. Era successo che alcuni ebrei, spacciandosi per sacerdoti, raccogliessero denaro dai convertiti della buona società romana, a sentire loro, per il tempio di Gerusalemme, per poi farne, invece, un loro personale uso. In Palestina, la notizia di questo fatto, opportunamente manipolata e distorta tacendo la causa vera della decisione di Tiberio, aveva rinfocolato il desiderio di ribellione nei confronti dei Romani, un sentimento già risvegliato dal comportamento antiebraico del nuovo governatore appena inviato da Roma a Gerusalemme, che si era subito dimostrato, fin dal momento del suo arrivo, un raro esempio di insipienza e di mancanza di diplomazia, un imbecille che non perdeva occasione per ostentare il suo disprezzo per i costumi religiosi degli ebrei, alienandoseli quindi, anzichè conquistarli al rispetto per l'autorità di Roma.
Come ti ho già detto, a quell'epoca, gli ebrei erano divisi in due grandi gruppi per quanto riguardava le pratiche liturgiche. C'erano gli ebrei tradizionalisti, che usavano l'ebraico, che escludevano le donne dal culto, che seguivano strettissime regole morali e comportamentali e che tenevano i convertiti non ebrei etnici in posizione subordinata e c'erano gli ebrei ellenisti, che invece usavano il greco nelle loro preghiere e nei loro riti, che permettevano alle donne di prendere parte attiva nelle pratiche del culto e accettavano pienamente i convertiti, anche se gentili, senza obbligarli nè alla circoncisione nè all'accettazione di tutte le complesse regole rituali degli ebrei tradizionalisti.
Il mio antenato, uomo moderno e illuminato, parteggiava per questi ultimi, mentre suo fratello minore parteggiava, invece, per i tradizionalisti, che venivano continuamente rafforzati dai fermenti antiromani cui ho già accennato.
Questi fermenti antiromani ed antioccidentali in genere, allo scadere dell'anno, portarono alla sostituzione di Eleazar nella dignità di grande sacerdote ed alla perdita di potere della sua famiglia. Eleazar fu sostituito, al rinnovo delle cariche sacerdotali, da Caifa, uno spregiudicato politicante, abile doppiogiochista, che faceva credere ai Romani di essere favorevole a loro, mentre, in realtà, parteggiava per la fazione estremista e antiromana.
Naturalmente, l'accessione alla carica di quest'uomo riportò a galla la storia della presunta illegittimità del mio antenato, che dovette quindi cedere il posto di principe ereditario al suo fratello minore e subire l'onta di essere insultato, ancora una volta, col titolo di 'uomo della menzogna'. Comunque sia, anche sapendo che questo gli sarebbe stato politicamente dannoso, per coerenza con i suoi principi pacifisti e con le sue convinzioni politiche che gli facevano preferire la pace con Roma e la piena accettazione dei gentili nella setta, egli rifiutò di seguire suo padre, quando questi andò ad unirsi agli zeloti rimasti. Per questo, egli fu abbandonato da molti, anche se diversi dei suoi seguaci gli rimasero, comunque, fedeli.
L'uomo sepolto in quella tomba aveva iniziato il suo ministero nel 29 d. C., rigenerato dal battesimo rituale per mano del Maestro di rettitudine, che, allora, non sapeva ancora quello che gli sarebbe successo di lì a due anni, quando, come ti ho già raccontato, non essendosi verificata la sua profezia circa l'intervento divino per la restaurazione del regno del popolo eletto, fu perseguitato come falso profeta e bandito, rimanendo così, solo e indifeso, alla mercè dei suoi nemici.
Altre forze ed altri uomini erano operanti, in quello stesso tempo, in Palestina.
Era molto attiva una setta di gnostici che faceva capo ad un certo Simone, capo dei Manasseh d'occidente o Samaritani, il quale si spacciava ai tanti creduloni in circolazione come una reincarnazione di Dio e presentava la sua amante come l’incarnazione del pensiero di Dio. Simone, però, nonostante queste stranezze, di cui si serviva, sicuramente, per meglio controllare i suoi sprovveduti seguaci, era un uomo colto ed intelligente e le sue dottrine costituivano una sintesi brillante fra una forma di giudaismo liberalizzato e gli insegnamenti della filosofia greca. Era ben disposto verso gli ebrei della diaspora e nettamente indipendente da Gerusalemme e dalle gerarchie del Tempio e, siccome ebbe sempre simpatie per gli zeloti, ogni volta che gli umori prevalenti portavano le masse ad opporsi attivamente a Roma, Simone si ritrovava, giocoforza, alleato con i nazionalisti, con i quali invece, in tempi normali, era in polemica.
Simone aveva molti spunti dottrinari e politici in comune col mio antenato. Prima di tutto, egli riconosceva pienamente al mio antenato i suoi diritti dinastici e riteneva che, ove si avverassero le speranze di un rinascimento di Israele, era il mio antenato che avrebbe dovuto regnare sul nuovo regno universale giudaico e non altri. Anche lui rigettava l'esclusiva per la dignità sacerdotale dei figli della tribù di Levi e teorizzava che chiunque potesse svolgere compiti sacerdotali, ma, a questo proposito, con un fine senso della politica, dichiarava che il mio antenato avesse diritto ad essere il suo personale levita, insinuando così, senza darlo a vedere troppo manifestamente, il concetto della sua supremazia di grande sacerdote anche sul re. L'amicizia fedele del mio antenato per quest'uomo geniale e manipolatore, implacabile nemico di Agrippa, fruttò a lui, che invece di Agrippa era sempre stato un buon amico ed estimatore, l'accusa ingiustificata di parteggiare per gli zeloti contro il potere centrale dell'Impero, un'accusa che dovrà poi procurargli un mare di guai, come ti dirà in seguito.
Con Simone gran sacerdote, il mio antenato si vide, ancora una volta, pienamente riconosciuta la sua dignità dinastica e potè efficacemente promuovere le sue vedute circa il riconoscimento della pari dignità ed eguaglianza fra ebrei etnici e convertiti e circa la generalizzazione dell'attività sacerdotale a tutti, comprese le donne, un fatto che i tradizionalisti e, con questi, anche il resto della sua stessa famiglia, concepivano come un vero e proprio tradimento della fede.
Naturalmente, c’era anche gente con altre vedute e, così, alcuni si riconoscevano nell'insegnamento di Gionata Annas, il quale, pur ritenendo che ai convertiti si dovesse riconoscere la stessa dignità degli ebrei etnici, pensava tuttavia che i compiti sacerdotali dovessero essere riservati ai soli membri della tribù di Levi, come dettato dalla tradizione.
Il capo degli Scribi, uomo di grande influenza a Qumran, dal canto suo, era, a quel tempo, nettamente favorevole agli zeloti e propugnava una politica di attiva e militante opposizione all'autorità di Roma, un fatto che poteva mettere a rischio l'intera comunità, data la spietatezza dei Romani nel perseguire anche l'ombra di un'opposizione alla maestà della loro legge e dei loro ordinamenti.
In questo contesto di contraddizioni e di polemiche più o meno manifeste, nel 30 d. C., il mio antenato, che allora aveva l'età di 36 anni, lasciò temporaneamente la comunità celibataria in cui viveva e celebrò, nel sacro mese di settembre, il suo primo matrimonio, il matrimonio cosiddetto di prova, matrimonio che venne consumato, secondo gli usi e le tradizioni della sua setta, nel dicembre del 32 d. C, sicchè, nel successivo marzo, quando sua moglie era ormai al terzo mese di gravidanza, potè celebrare, come previsto dalle regole, il matrimonio finale, quello, cioè, che precedeva immediatamente l'abbandono della famiglia e il rientro in comunità. Da questa gravidanza nascerà, nel successivo settembre del 33 d. C., una bambina.
Per tutto l'anno 32 d. C., il mio antenato sepolto in quella tomba là fuori intensificò la sua attività in favore della promozione dei convertiti gentili nell'ambito della setta. Addirittura, ad un certo punto, egli riconobbe anche a questi il diritto ad esercitare funzioni sacerdotali e li battezzò ritualmente, una cosa che i tradizionalisti considerarono addirittura oltraggiosa. Li battezzò, però, nel mare, forse per ridurre un po' l'irritazione degli ortodossi, dato che, nella loro graduatoria delle acque, l'acqua di mare era al livello più basso di purità rituale.
Subito dopo questa cerimonia, che avvenne nel tardo pomeriggio d'un giorno di marzo di quell'anno ad Ain Feshka, i neo-battezzati tornarono in barca a Mazin, per partecipare ad un’altra elaborata cerimonia, inspirata alla storia biblica dell'arca di Noè, ed in cui venivano purificati, per immersione, sia gli ebrei dei villaggi, considerati gente di bassa casta perchè mogli e mariti convivevano per tutto il tempo, sia i convertiti gentili.
C'era un po' di snobismo razzista in questa cerimonia, in cui i gentili e gli ebrei dei villaggi resi, a paragone con i celibatari della setta, simili alle bestie dall’impurità dovuta alla convivenza con le loro donne, venivano salvati dalla perdizione, raccolti dall'acqua, presi a bordo dell'arca, trasportati all'inizio del canale, vicino alle chiuse, e depositati, dopo una prima iniziazione, nella terra asciutta, simbolo della salvazione. Le 'bestie' raggiungevano l'arca guadando l'acqua bassa del canale per venire poi tirati a bordo, sotto gli occhi condiscendenti di uno dei sacerdoti, che li benediceva, ma che evitava di toccarli o esserne toccato, perchè lui, la quintessenza della purezza, non poteva farsi contaminare dal tocco di questi esseri che Dio doveva per forza considerare inferiori.
All'inizio di questa simbolica cerimonia, il sacerdote officiante, addobbato nei suoi pesanti vestimenti liturgici, raggiungeva comodamente l'arca, incedendo con grande maestà su un pontile galleggiante che si staccava dalla spianata davanti al tempio.
I neo-battezzati arrivarono, dunque, a Mazin alle 3 del mattino di quel giorno di marzo, ma furono delusi perchè non trovarono sull'arca alcun sacerdote del tempio ed appresero, anzi, che nessuno di questi era disposto ad officiare la cerimonia. Questo rifiuto voleva segnalare la condanna netta da parte del clero nei confronti del rito di promozione di gentili e di ebrei non celibatari, appena celebrato ad Ain Feshka dal mio antenato e, naturalmente, offese un po' tutti e non mancò di infiammare gli animi di molti.
I pellegrini cominciavano infatti a dare segni di impazienza ed alcuni di loro s'erano già avviati, vociando, attraverso la spianata antistante al tempio, verso gli alloggiamenti del clero e sarebbe bastato ben poco perchè la loro ira non esplodesse in qualche violenza.
Il mio antenato arrivò per il sentiero che univa Ain Feshka a Mazin proprio in quel momento e, capita immediatamente la situazione, per evitare prevedibili episodi di violenza, decise di sostituire personalmente il grande sacerdote assente e, indossati i sacri paramenti, senza ulteriori indugi, si avviò verso l'arca, camminando sul pontile galleggiante.
Dovette essere uno spettacolo altamente suggestivo e pieno di pathos e di fervore religioso. Dapprima nessuno lo notò, ma presto fu visto, alla luce delle torce che punteggiavano le sponde del canale, dai fedeli in attesa che se lo additarono l'un l'altro.
Improvvisamente tutti tacquero presi da grande soggezione, da fervida aspettativa e da reverenziale timore.
La foschia che saliva dal canale copriva appena il livello dell'acqua e nascondeva il pontile galleggiante, raggiungendo la caviglia dell'uomo e l'orlo della sua bianca veste sacerdotale, sicchè questi sembrava spostarsi senza alcun movimento, quasi sospeso sui vapori a pelo d'acqua che gli coprivano i piedi. Tutti gli occhi erano fissi su quella solitaria, ieratica, nobile e celestiale figura, avviata verso l'arca della salvezza e tutti abbassarono la testa in ossequio. Alla luce delle fiaccole, il suo viso appariva composto, sereno, raddolcito dall'ombra di un sorriso, per nulla preoccupato dalle possibili conseguenze della sfida mortale che stava facendo al clero del tempio, ai professionisti, cioè, del sacerdozio, convinto com'era di dover compiere fino il fondo i suoi doveri verso il suo popolo e verso le sue convinzioni.
Salito sull'arca, tra il fervoroso tripudio di tutti, egli celebrò i riti previsti e tutti ne furono grandemente consolati.
Per i sacerdoti chiusi nel tempio, invece, questa celebrazione da parte di un non appartenente alla tribù di Levi fu un fatto altamente offensivo, uno strappo violento contro l'ortodossia dominante, una vera e propria dichiarazione di guerra contro la loro cricca, perchè significava affermare solennemente e polemicamente che qualsiasi credente avesse il pieno diritto di esercitare tutte le funzioni sacerdotali e che, quindi, la comunità poteva benissimo fare a meno dei Leviti di professione, che, in tal modo, avrebbero perso il loro potere.
Quest'atto polemico, certamente meditato da lungo tempo per affermare il principio dell'eguaglianza di tutti di fronte a Dio, fu gravido di conseguenze e attirò sull'uomo sepolto là fuori accuse gravissime di eresia, tanto che alcuni cronisti dell'epoca, ispirati dal clero del tempio, lo chiamarono il 'sacerdote malvagio', come si può leggere nei rotoli del Mar Morto, un termine derogatorio che si aggiunse al precedente di 'uomo della menzogna', che gli era stato già dato dai suoi nemici a causa della sua nascita speciosamente considerata irregolare. Fu un atto che richiese, comunque, un immenso coraggio in una società rituale e tradizionalista com'era quella in cui avvenne, un atto che precedette solo di poco l'affronto finale al clero da parte del mio antenato sepolto qui, quello, cioè, di appropriarsi anche lui del privilegio, riservato fin lì soltanto al grande sacerdote, di poter entrare nel recinto del Santo dei Santi.
All'epoca di questi fatti, scoppiò in Palestina un'altra delle solite proteste contro l'autorità di Roma, probabilmente giustificata, perchè causata dall'uso indebito che il governatore romano faceva dei fondi del Tempio per finanziare lavori pubblici.
Con la consueta spregiudicatezza e l'abituale senso pratico dei governanti romani, il governatore fece mescolare con i dimostranti ebrei diversi soldati in abiti civili, col compito, durante episodi di violenza, di far fuori a randellate i capi della sommossa, che fu così rapidamente controllata.
Naturalmente, i tre istigatori principali della sommossa, Simone, il capo degli Scribi di Qumran e un certo Theudas, dovettero darsi alla clandestinità, per salvarsi la pelle. Specialmente a rischio era Theudas, perchè, nella sommossa, aveva ucciso un soldato romano, una cosa che le autorità imperiali non avrebbero certo lasciata impunita.
Come sempre accadeva in caso di insuccesso, le fazioni della setta che aspiravano al potere, sfruttarono il fallimento della rivolta per dare l'ostracismo ai perdenti e sostituirsi a questi nelle loro posizioni d'autorità e prestigio. Simone venne immediatamente privato della sua dignità sacerdotale e, per far in modo che non potesse più candidarsi, neppure in futuro, per alcuna carica sacerdotale, venne scomunicato ed espulso dalla setta. Egli venne, cioè, nel linguaggio esoterico della comunità, espulso dalla via e privato della sua vita (spirituale), un fatto che veniva segnalato con una particolare cerimonia, nella quale il reprobo veniva spogliato dei suoi paramenti, rivestito di un sudario come quello dei morti e temporaneamente rinchiuso in una delle tante caverne attorno a Qumram, cioè, 'sepolto'. Intendiamoci, si trattava, di solito, di un seppellimento rituale e simbolico, ma ciò non toglie che, quando i sacerdoti e la plebaglia erano particolarmente in vena di cattiveria, si dimenticavano bellamente del 'sepolto', lasciandolo a morire d'inedia e di mancanza d'aria.
Mentre accadevano questi fatti, il mio antenato si trovava a Mird, una località poco distante da Qumran. Egli non aveva alcun motivo per nascondersi dalle autorità romane perchè non solo non aveva partecipato alle manifestazioni antiromane finite così malamente, ma neppure le aveva ispirate o approvate. E poi, egli sapeva che la sua dottrina di leale collaborazione con Roma e di rispetto per i gentili doveva essere ben nota a tutti.
Mentre avvenivano questi fatti, un'altra violenta lotta di potere era in corso, anche se a un livello diverso, cioè la contesa feroce che metteva l'uno contro l'altro due discendenti degli Erodi, per il possesso del trono di Galilea. Infatti, Agrippa, sostenuto, ma solo fino ad un certo punto dal Governatore romano della Siria, Flacco, si opponeva violentemente al tetrarca Antipas. Non si sa più bene per quali motivi, ma forse per ordini precisi di Roma, ad un certo punto Flacco mollò Agrippa sicchè Antipas ebbe la meglio, salì al trono e, probabilmente all'insaputa dei Romani, si adoperò per restaurare Simone nella sua posizione nell'ambito della setta, pur incontrando, naturalmente, l'opposizione del nuovo grande sacerdote, Gionata Annas.
Questo contrasto creava un importante problema rituale, perchè il ritorno alla vita, cioè il ritorno a pieno diritto nella setta, poteva avvenire soltanto dopo una particolare cerimonia, officiata da un sacerdote o da un levita, e nessuno voleva prendersi la bega di officiare un tale rito, un po' perchè nessuno voleva mettersi contro l'Annas e un po' perchè le autorità romane avrebbero potuto non gradire, se ne fossero venute a conoscenza, questa manifestazione di simpatia verso un ricercato e avrebbero potuto considerarla, addirittura, come un atto di complicità con i rivoltosi di pochi giorni prima. E i Romani, non bisogna dimenticarlo, mettevano paura quando si muovevano nei confronti di rei di lesa maestà e dei loro complici, che, come sai meglio di me, venivano inchiodati su croci per morire di una morte crudele, che avveniva dopo giorni e giorni di sofferenze atroci, a differenza di quello che avveniva, invece, nelle condanne a morte per delitti comuni, in cui la sentenza veniva eseguita mediante una rapida e dignitosa decapitazione.
Il mio antenato non ebbe queste paure. Per lui, uomo onesto e leale, le cose erano abbastanza semplici: un amico aveva bisogno di aiuto e, quindi, lui andò a dare questo aiuto, senza pensare alle eventuali conseguenze.
Si precipitò, quindi, a Qumran, indossò i prescritti paramenti sacerdotali, fece aprire la caverna, chiamò l'uomo fuori, celebrò i riti di purificazione necessari per il ritorno del reprobo alla via ed alla vita e se ne tornò nella capitale, occupato com'era con le celebrazioni del suo matrimonio finale, prima di rientrare nella comunità.
Poco dopo questo episodio, si tenne a Qumran lo stagionale concilio della setta.
Quell'anno c'era però qualche problema, almeno per i membri della setta ricercati dai Romani a causa della loro partecipazione alla ribellione fallita, perchè, se i Romani avessero sospettato della loro presenza a Qumran, avrebbero potuto facilmente circondare il luogo ed arrestarli tutti. Inoltre, una delazione era sempre possibile, non tanto per la fedeltà dei potenziali delatori a Roma, quanto per l'occasione offerta a questi di togliersi facilmente di torno eventuali avversari nell'interno della setta, senza apparire direttamente.
Siccome il concilio coincideva anche con la data prevista dalle profezie per la rinascita di Israele, l'attesa era ancora più fervida e l'ansia maggiore che in altre occasioni.
Il mio antenato si recò cerimonialmente al concilio, come spettava al suo rango di erede dinastico, cavalcando una mula bianca dalla Casa delle donne fino al Tempio.
Finalmente, il concilio iniziò i suoi lavori, ma il tempo passava e la profezia che Dio avrebbe provveduto direttamente a confondere i Romani e ad istituire il nuovo regno universale d'Israele non si attuava, un fatto che poneva erede e sacerdoti in grave disagio nei confronti delle masse che aspettavano piene di fede.
Quando una profezia non si verificava significava per quella gente che o Dio aveva voltato loro le spalle per qualche peccato collettivo oppure che chi aveva fatto la profezia era un falso profeta, da mettere, quindi, al bando e 'seppellire'.
Era perciò di capitale importanza trovare subito qualcosa per tenere a bada le masse e per liberarsi da quelle orribili accuse, che, se sfruttate con la consueta furbizia dagli zeloti, avrebbe potuto dare tutto il potere ai radicali e segnare la fine di ogni qualsiasi speranza di portare avanti la dottrina dell'uguaglianza nella setta fra ebrei etnici e convertiti. Un'ascesa al potere degli zeloti significava anche il grave rischio che qualche testa calda potesse condurre il popolo ad una guerra contro i Romani, disastrosa e senza speranze, e questo rischio andava ad ogni costo scongiurato, perchè avrebbe offerto agli eserciti di Roma l'occasione per obliterare definitivamente l'intera nazione ebraica.
Il mio antenato fu rapido nel trovare una spiegazione plausibile per il mancato avverarsi della profezia. Egli s'era sempre opposto alle pratiche finanziarie della setta, che fondava le sue ricchezze non su contributi volontari da parte dei nuovi adepti, ma su una vera e propria tassa di iniziazione e così, passando davanti ai tavoli dei contabili, li rovesciò con disgusto, accusandoli di aver provocato, col loro mercantile comportamento, lo scontento del cielo.
Fu un colpo di grande effetto, perchè tutti cominciarono a pregare, invocando il perdono di Dio e sperando che, insieme col suo perdono, Dio concedesse l'avverarsi della profezia, in occasione del prossimo equinozio, di lì a quattro giorni.
A quel punto, però, altre forze si misero in azione e, quando la profezia non si avverò neppure all'equinozio, il capo degli scribi, che aspirava a intronizzarsi come grande sacerdote, pensò bene di far togliere di mezzo i suoi oppositori denunciandoli segretamente ai Romani. Egli, che pure era stato parte della rivolta antiromana del dicembre precedente, pensava di farla franca sia in premio per la delazione in se stessa, sia corrompendo sotto banco il governatore, con i soldi del Tempio. Intanto, per guadagnare il tempo necessario perchè la sua spia raggiungesse la capitale, era riuscito a sobillare le masse dei credenti, accusando Simone, il vecchio Theudas e il mio antenato sepolto qui vicino di essere stati dei falsi profeti.
Mentre tutti erano, a Qumran, occupati in questi diatribe, all'improvviso, arrivarono i Romani che, immediatamente, arrestarono gli zeloti presenti e cominciarono a processarne i capi di fronte al governatore.
Su istigazione del capo degli scribi, anche il mio antenato venne arrestato ed accusato di collaborazionismo con uno dei capi della rivolta, l'uomo, cioè, bandito e 'sepolto', che egli aveva, appena qualche giorno prima, 'resuscitato' e restaurato nella setta, dimostrando così, secondo il delatore, la sua complicità ideologica con i rivoltosi.
Naturalmente, tutti gli interessati provarono, con ogni mezzo a loro disposizione, ad influenzare l'esito di questo processo. Qualcuno interessò il tetrarca Antipas, che, amico del vecchio Theudas, offrì una considerevole somma al governatore, che liberò il vecchio, ma fece arrestare il capo degli scribi, da cui era forse stato pagato troppo poco e che, così, cadde vittima delle sue stesse macchinazioni.
L'esito del processo era scontato. Per chi si ribellava all'autorità di Roma impugnando le armi contro l'impero esisteva una sola punizione, la crocifissione, e questa fu implacabilmente comminata a tutti e subito eseguita.
L'esecuzione pratica di questa sentenza creò nella comunità di Qumran, con tutte le sue fisime rituali di purità e impurità, una serie di problemi.
Certo non si potevano giustiziare degli uomini nella cinta della città, perchè il fatto avrebbe contaminati i luoghi (non dimenticare che un malato non era considerato puro a sufficienza per non contaminare il tempio con la sua presenza, figuriamoci quanta impurità veniva causata dalla presenza di uomini torturati e destinati a morire lentamente, perdendo sangue, sudore, orine e feci).
Fu perciò scelto un posto appena al di fuori della porta meridionale d'ingresso a Qumran, su una linea distante pochi metri dall'angolo sud-occidentale del complesso del luogo di riunioni annesso al Tempio, dove erano le latrine usate dai pellegrini, ancora oggi identificabili.
Con i travi che servivano ad erigere le tende per questi pellegrini in visita a Qumran, vennero confezionate delle croci ed i condannati vennero inchiodati su queste per i polsi e le caviglie ed esposti al sole e alle intemperie, nonchè al ludibrio o alla commiserazione degli astanti, a seconda delle loro inclinazioni. Al centro fu eretta la croce di Simone, alla sua destra quella del mio antenato di cui sei venuto a vedere la tomba e alla sua sinistra quella del delatore, l'ex capo degli scribi.
Come era prevedibile, gli amici dei condannati, tra cui il tetrarca Antipas, non si dettero per sconfitti. Il tipo di esecuzione previsto dava infatti ampio tempo per mettere in atto contromisure atte a salvare i condannati e tutti sapevano che una buona mazzetta al momento opportuno e alla giusta persona aveva già salvato, in precedenza, più di un condannato alla crocifissione.
Così Antipas si recò dal governatore romano e adducendo ufficialmente l'imminenza del sabato religioso, che non permetteva di lasciare dei condannati sulla croce, ma offrendo sotto banco una congrua somma di danaro, chiese che fosse loro permesso di cambiare il modo di esecuzione, passando a uno più tradizionale per gli ebrei, quello per soffocazione.
Nel frattempo, il mio antenato sembrava essere spirato. Il governatore romano, bene a conoscenza del lungo tempo normalmente necessario prima che i condannati a quel tipo di morte si spegnessero, ebbe qualche sospetto, ma nulla fece per chiarirlo, anche perchè, in fondo, si era ben reso conto che quell'uomo gli era stato indicato come un rivoltoso solo perchè una fazione di quella peculiare comunità voleva disfarsene e non indagò oltre. Se lo avesse fatto, si sarebbe, forse, ricordato delle sofisticate, beninteso per quel tempo, cognizioni mediche degli Esseni e dei Terapeuti ed avrebbe scoperto che, a sua insaputa, quel condannato aveva ricevuto un potente sonnifero dai suoi amici, sicchè la sua era una morte non vera, ma solo apparente.
Deciso a lasciare al più presto quelle lande assolate e quella banda di esaltati per tornarsene alla frescura del suo palazzo a Gerusalemme, il governatore dette il suo assenso perchè i condannati fossero tolti dalle croci e deposti in una delle molte caverne ancora oggi visibili attorno a Qumran, che erano, oltre tutto, convenientemente nell'ambito della distanza massima dei mille cubiti che gli ebrei ortodossi potevano percorrere camminando di sabato senza infrangere le regole. La caverna venne sigillata con un masso in modo da dare al governatore l'impressione che i condannati erano stati definitivamente sepolti e che, quelli ancora vivi, sarebbero di conseguenza morti per soffocazione.
Come era loro abitudine, i soldati Romani provvidero prima a fratturare, a colpi di clava, gli arti inferiori dei condannati che apparivano ancora vivi, un uso che aveva lo scopo di affrettarne la morte, perchè, a parte lo shock traumatico non indifferente, mancando l'appoggio sugli arti inferiori, il corpo cadeva verso il basso, appeso soltanto per i polsi e i polmoni non potevano più ventilare a sufficienza, sicchè il condannato perdeva rapidamente conoscenza e moriva per asfissia e per insufficienza congestizia.
Soddisfatto di essersi finalmente liberato definitivamente di quegli irritanti elementi di disturbo, il governatore si affrettò verso casa sua, lasciando libero il campo ai cospiratori.
Questi, scesa la notte, fecero rotolare la pietra che chiudeva l'accesso alla caverna-sepolcro, trasportarono a spalla Simone, che aveva eccellenti cognizioni mediche, dal mio antenato il quale, opportunamente curato con aloe ed altri medicamenti, si riprese dal suo stato di coma farmacologico simulante così bene la morte.
Il capo degli scribi, invece, non ebbe perdono. Vista la sua opera di delatore che aveva portato morte e impurità nella pia comunità di Qumran, venne sollevato e precipitato da un'apertura della caverna nel burrone sottostante e il suo addome scoppiò quando urtò un masso, rigurgitando fuori i suoi intestini e tutti pensarono che mai morte fosse stata più giusta della sua.
La moglie del mio avo sepolto qui vicino, dalla sua stanza nella lontana Casa delle vergini, vide la luce di qualche torcia nella zona delle caverne, per cui capì che lì stava succedendo qualcosa di strano. Essendo le donne gravide scusate dalle regole del sabato, subito si munì anch'essa di una fiaccola e si recò alla caverna, stupendosi grandemente quando la trovò aperta e quando, entrata, si imbattè in suo marito, che, lì per lì, non riconobbe. Questi, pur indebolito da quello che gli era appena successo, la chiamò col suo nome, ma non dimenticò le regole monastiche della setta e le disse semplicemente di non toccarlo, sia perchè egli aveva bisogno di purificarsi ritualmente, sia perchè, dovendo rientrare in comunità dopo il matrimonio finale, non poteva avere alcun contatto fisico con una donna, fosse pure sua moglie.
Lo scampato fu subito aiutato, col favore delle tenebre, a recarsi nella Casa delle vergini, dove fu nascosto e potè riposarsi e riacquistare le sue forze.
Naturalmente, quanto accaduto alle caverne non venne divulgato. Troppa era la paura che il clero del tempio, ancora irritato col mio antenato per i suoi affronti continui al potere della casta sacerdotale, lo avrebbe fatto riarrestare e riconsegnare ai Romani.
Fortunatamente fu facile non attirare troppa attenzione, perchè la gente a Qumran, fin dal giorno dell'esecuzione, aveva un altro oggetto di grande curiosità a cui pensare: il cambio dell'ora.
Era accaduto che l'antico calendario lunare seguito dagli ebrei ortodossi, era rimasto infatti assai indietro rispetto al calendario giuliano. Non solo, ma anche le ore della giornata non coincidevano più con quelle astronomiche. Per cui, quel giorno, il tetto del tempio non venne aperto, come previsto dai rituali, a mezzogiorno, ma tre ore più tardi, e, cioè, al nuovo mezzogiorno secondo il nuovo e più accurato computo del tempo e, così, chi si era recato al tempio all'ora solita senza sapere di questo cambiamento, fu sorpreso perchè dovette rimanere per tre ore al buio.
Le condizioni fisiche del mio antenato, salvato da sicura morte all’ultimo momento, migliorarono rapidamente col riposo e con le cure, sicchè egli potè subito riprendere i contatti con i suoi seguaci, visitandoli ad Ain Feshka, a Mird, a Mar Saba e, infine, nella capitale, dove tutti si riunirono segretamente per celebrare il suo ritorno ufficiale nella comunità dei celibi a vivere nuovamente nel paradiso della sua monastica seclusione.
Gionata Annas lo ricevette in carico e Gionata Annas accomiatò i seguaci del mio antenato promettendo che lo avrebbero avuto di nuovo dopo 3 o 6 anni, a seconda che gli fosse nata una figlia o un figlio. Ed infatti, nel 36 d. C., dopo la nascita di una bambina, egli lasciò di nuovo la comunità, si rasò la sua lunga barba, distintivo del suo stato di celibatario, e rinnovò il suo matrimonio.
Nello stesso tempo altri eventi di grande importanza accaddero in Palestina: proprio nell'anno 36, venne sostituito il governatore romano; Agrippa, poi, sfruttando a fondo le sue connessioni con la Roma bene, accelerò la sua marcia di avvicinamento al trono di Galilea e fece eleggere al tempio grandi sacerdoti di sua fiducia; l'imperatore Tiberio morì nel 37 nella sua villa di Capri e gli successe sul trono un folle megalomane, Caligola, che non solo avrebbe nominato senatore il suo cavallo preferito, ma avrebbe pure deciso d'essere un dio lui stesso e obbligato i suoi sudditi ad adorare nei tempi le sue statue; a Qumran, una vertenza sulla suddivisione e sull'uso legittimo del denaro del tempio oppose due fazioni, una con Agrippa, appena nominato da Caligola re di Galilea, e l'altra capeggiata dal fratello minore del mio antenato scampato alla croce, per cui le polemiche fra gli avversi sostenitori delle due entità dinastiche che si contendevano il diritto di regnare sul sognato nuovo regno mondiale d'Israele si riaccesero e si arrivò a una frattura violenta, che portò il fratello dell'uomo sepolto là fuori a trasportare gran parte del tesoro di Qumran a Damasco, dove fondò un'altra comunità di Esseni, fedeli alla sua stirpe e opposti a quella degli Erodiadi, con ciò sancendo l'inizio del declino di Qumran, come centro religioso e culturale di prima grandezza; cominciò a far sentire la sua presenza sul palcoscenico della storia della Palestina un giovane fanatico, quanto mai razzista ed estremista, il quale, per fare carriera, urlava sempre a gran voce che i gentili, anche se convertiti, fossero comunque di gran lunga esseri inferiori rispetto agli ebrei etnici; che la simpatia mostrata per i gentili dal grande sacerdote in carica, Gionata, costituisse un vero e proprio travisamento dell'ebraismo; che il mio antenato fosse un bastardo traditore della sua stessa nazione e che solo quando le masse fossero state finalmente liberate di questi elementi corrotti, si sarebbe potuta avverare la profezia della cacciata dei Romani dalla Palestina e della loro distruzione, seguita dalla fondazione, per volere di Dio, del sognato Regno universale d'Israele (questo personaggio, poi, visto che con le sue invettive non combinava nulla, ad un certo punto cambierà repentinamente convinzioni e scopi della sua attività di proselitismo e sfrutterà a lungo le vicende umane del mio antenato, travisandole nel modo più sfacciato e subdolo, a seconda del momento, per servire meglio i suoi fini di potere, ma la sua storia esula dal quello che ti sto raccontando).
Tornando al mio antenato sepolto là fuori, a giugno del 37 d. C. gli nacque, finalmente, il figlio maschio tanto desiderato come erede ufficiale. Questo figlio fu chiamato il Giusto, ma suo padre, rinchiuso nella clausura della sua comunità celibataria prevista dalle rigide regole della setta essenica, quasi non lo vide mai, prima che il piccolo compisse 6 anni, cioè quando gli fu permesso di rinnovare il suo matrimonio e lasciare ancora una volta, anche se temporaneamente, la sua clausura.
Due assassinii turbarono in quel periodo le vicende politiche, sia a Roma che in Palestina: quello del pazzo imperatore Caligola, avvenuto nel 41, e quello di Agrippa I, tre anni dopo. A Caligola successe Claudio, ad Agrippa I l'omonimo suo figlio, col nome di Agrippa II. Caligola fu assassinato da suoi sudditi che non tolleravano più le sue pazzie; Agrippa I fu avvelenato a Cesarea, da una fazione che si opponeva alle sue pretese, blasfeme per gli ebrei ortodossi, di scimmiottare Caligola ed essere venerato anche lui come un dio.
Gli ebrei della Palestina furono particolarmente felici alla notizia della morte dell'imperatore Caligola. I figli di un Dio fatto di puro pensiero non potevano aver dimenticato l'affronto subito quando Petronio, il nuovo governatore romano arrivato in Giudea nel 39, per ordini imperiali, fece porre una gigantesca statua dell'imperatore-dio Caligola nel Tempio di Gerusalemme. La stessa stupidaggine Caligola l'aveva tentata ad Alessandria e il rifiuto netto degli ebrei di erigere statue dell'imperatore pazzo nelle loro sinagoghe condusse a efferati massacri di massa, felicemente compiuti dai greci del posto, al servizio dell'imperatore".
A questo punto il mio interessante anfitrione interruppe il suo racconto, perchè s'era fatta ora di cena.
"Non vorrai andare via a quest'ora. Mia moglie avrà preparato da mangiare anche per te e se ne avrebbe a male se non rimanessi con noi. Poi, siccome è ormai tardi e la notte non è sicura per via delle continue scaramucce notturne fra guerriglieri pro-Pakistan ed esercito indiano causati dalla vertenza fra India e Pakistan per il possesso del Kashmir, ti consiglio di dormire qui da noi".
Naturalmente accettai. La curiosità di sapere come sarebbe finita la storia dell'uomo sepolto in quella tomba che mi avevano spinto a visitare, l'indubbio fascino del mio anfitrione, la conoscenza del fatto che, rifiutare l'ospitalità offerta è, in oriente, almeno tanto offensivo quanto il non offrirla, la prospettiva, per niente attraente, di fare da bersaglio a un cretino che spara solo perchè ha in mano un Kalashnikov funzionante, erano motivi più che sufficienti.
Durante la cena parlammo un po' di tutto, ma, soprattutto, dei Romani.
Ci trovammo d'accordo sul fatto che il successo di Roma fu essenzialmente dovuto ad una precisa organizzazione dello stato, con leggi chiare, logiche, giuste e al di sopra di tutti, per cui i cittadini della repubblica e del primo impero, vedendo nello stato la proiezione diretta e immediata dei loro interessi, erano sempre pronti a qualsiasi sacrificio, anche a quello della vita, per questo stato.
Ci trovammo anche d'accordo su una spiegazione della decadenza dell'impero romano che farebbe sicuramente rabbrividire gli storici di mestiere, ma che forse non è lontana dalla verità, una spiegazione che funziona così: i modi di fare così peculiari della classe dirigente di Roma, durante il basso impero, come possiamo chiamare eufemisticamente le folli efferatezze compiute, quasi ogni giorno, da quella gente, possono essere spiegati soltanto postulando una generalizzata pazzia. Ebbene, la classe dirigente romana aveva tutte le ragioni per essere preda di questa clinica pazzia collettiva. A Roma, infatti, le condutture dell'acqua per uso alimentare erano fatte con tubi di piombo. Piombo veniva usato per sigillare gli otri in cui conservavano il vino. Col piombo si facevano ogni sorta di contenitori per uso domestico.
I Romani non lo sapevano, ma noi oggi sappiamo benissimo che un avvelenamento cronico da piombo, specie se dovuto a dosi bassissime, ma persistenti, come quelle eventualmente dovute alla dispersione di molecole di questo metallo nell'acqua potabile, provoca, tra l'altro, fenomeni demenziali e torpore psichico, specie se associato all'uso dell'alcool. Chi poteva permettersi, nella Roma di allora, acqua canalizzata nella propria casa ed abbondanza di vino, se non proprio quella classe dirigente, che tanto eccelse per le sue incomprensibili pazzie?
Dopo la cena, la moglie del mio affascinante anfitrione ci portò un grosso thermos di caffè e se ne andò a dormire, lasciandoci soli nello studio del marito, dalla cui finestra si poteva contemplare il più incredibile cielo stellato.
"Mi dispiace, non ho liquori da offrirti".
"Non ti preoccupare", gli risposi, "pur non essendo musulmano, non ho alcun amore per le bevande alcoliche. Infatti non mi dà nessun fastidio il viaggiare in paesi dove non ci sono alcolici. Oltre tutto a casa mia, a tavola, beviamo acqua e succo d'arancia, per cui non hai alcun motivo per sentirti in colpa. Il caffè va benissimo. E poi, come sicuramente sai, tutti quelli che sono nati sulle sponde del Mediterraneo funzionano a caffè, piuttosto che ad alcool!"
Dopo aver bevuto una fumante tazza del dolcissimo caffè che piace agli orientali, il mio anfitrione riprese il suo racconto.
"Il successore di Caligola, Claudio, si dimostrò assai diverso dal suo predecessore e, fin dall'inizio del suo regno, si dette da fare per ricostituire un buon clima nei rapporti fra gli Ebrei e Roma.
Fortunatamente, in Palestina, il nuovo grande sacerdote del tempio era anche lui per la pace con Roma e la permanenza nell'ambito dell'Impero.
In questo clima finalmente favorevole alla pace e alla prosperità, il fratello del mio antenato seppellito là fuori lasciò Damasco per rientrare in Giudea e portò con sè i suoi seguaci, stabilendosi di nuovo a Qumran. Naturalmente, a Damasco, non tutti furono felici di questa defezione ed infatti, un rotolo trovato anni fa e che noi esperti chiamiamo il Documento di Damasco, riporta con estrema irritazione questa decisione dal partito dei tradizionalisti di tornare a Qumran, la sede tradizionale degli ebrei ellenizzati, che i tradizionalisti consideravano essere un branco di eretici. I transfughi, tra cui anche la madre dell'uomo seppellito nella tomba lì fuori, furono cerimonialmente purificati a Qumran e riammessi nella setta, tornando cioè alla 'Via' e alla 'Vita', nel 43.
In sostanza quegli anni furono abbastanza tranquilli per il mio antenato e le sotterranee polemiche politiche, religiose e teologiche che continuavano a dividere i popoli della Palestina, non lo risucchiarono mai in confrontazioni clamorose. Quando i tempi furono maturi, egli lasciò temporaneamente la comunità, ancora una volta, per rinnovare il suo matrimonio e, nel marzo del 44, gli nacque un altro figlio.
Però, l'assassinio di Agrippa I, creò, malauguratamente, un certo fermento e tutte le condizioni necessarie per aprire una caccia alle streghe da parte del partito degli ortodossi, per cui gli asceti d'origine gentile e i loro difensori di razza ebraica pensarono bene di trasferirsi, per sicurezza, ad Antiochia, l'allora capitale della Siria romana. Il mio antenato, che poteva invece ancora temere un nuovo arresto da parte delle autorità romane, abbandonò la Palestina e si associò ad una nuova comunità monastica di matrice essenica, da poco nata nell'isola di Cipro.
Questa polverizzazione del movimento essenico assicurò, sì, la sicurezza di tutti, ma provocò pure un'evoluzione separata delle singole comunità, che, eventualmente, porterà, sempre nell'anno 44 d. C, alcuni membri della comunità di Antiochia a trasferirsi nella capitale dell'Impero ed iniziare lì una nuova ondata di proselitismo.
A Cipro, la moglie del mio antenato ebbe una violenta crisi religiosa che la portò a rigettare radicalmente e violentemente i cambiamenti nell'originario modo di vivere e di pensare su cui si fondava l'originalità della comunità di Qumran che, giocoforza, erano stati causati da tutti questi eventi e dalla fondazione di tante nuove comunità scarsamente collegate fra loro. Questa crisi religiosa le fece improvvisamente decidere di abbandonare suo marito per rifugiarsi di nuovo nel misticismo della vecchia ortodossia. Non solo, ma essa si schierò di nuovo col partito nazionalista zelota, propugnatore della guerra contro Roma e del rigetto dei gentili, creando così un insanabile contrasto con la dottrina di pace con tutti e di uguaglianza fra ebrei etnici e gentili convertiti che era alla base del movimento religioso che faceva capo al mio antenato.
Questo fatto, secondo le consuetudini della setta, la poneva automaticamente al di fuori della comunità del marito e la faceva considerare come un'eretica, quindi 'morta' per la setta, ciò che lasciava libero il marito di contrarre un nuovo matrimonio, se avesse voluto, senza infrangere le regole monogamiche seguite dagli Esseni. Ed infatti, nel marzo dell'anno 50, il mio antenato si unì in un nuovo matrimonio con una donna di Thyatira, sacerdotessa di uno dei tanti ordini religiosi che erano nati fra le donne elleniste dell'epoca.
Questa donna fu purificata con l'acqua dei riti esseni e entrò così a far parte della 'Via', anche se la cosa fu grandemente criticata dai tradizionalisti dell'epoca, come si può leggere nello stesso Documento di Damasco, il cui autore scrive parole di fuoco contro chi 'è stato sorpreso a fornicare' per aver preso 'una nuova moglie mentre la prima è ancora viva'.
Questa diatriba diviene per noi moderni meglio comprensibile se si considera che, a quel tempo, esisteva ancora una grande differenza fra i comportamenti degli ebrei ortodossi e degli ebrei che invece avevano abbracciato l'Essenismo, dato che questi ultimi avevano fatte proprie le stesse strette regole sul matrimonio monogamico seguite dagli asceti greci, mentre gli ebrei tradizionalisti erano spesso ancora poligamisti. Si trattava, quindi, di regole interne della loro setta, regole di natura e provenienza umana e non divina e, come tali, aperte alla discussione e a possibili eccezioni, in situazioni particolari.
A questo punto, bisognerebbe tenere presenti una miriade di fatti, che sarebbe troppo lungo raccontare in dettaglio e che ti riassumo in stile quasi telegrafico.
L'intervento divino che avrebbe distrutto tutti i non credenti e istituito, finalmente, il regno universale d'Israele era ancora, per gli ebrei del tempo, non tanto una fervida speranza, quanto una ineluttabile certezza. Ormai stava terminando il quattromilesimo anno dalla creazione, secondo la Genesi, e questo anniversario poteva forse essere il momento buono.
Da Cipro, il mio antenato e i suoi compagni si recarono a Creta, isola situata a mezza strada fra l'Oriente e l'Occidente, che essi considerarono quindi come il luogo ideale per aspettare il miracolo e qui rimasero in fervida attesa. Ma siccome nulla avvenne, nel marzo del 61, partirono per Roma, dove andarono ad alloggiare in una comunità sulla Via Appia. La loro fede nella profezia e la speranza nei loro cuori suggerivano una nuova data per l'avverarsi della fondazione del regno universale d'Israele: l'anno 64.
Nel frattempo e per via di tutte queste vicissitudini, però, il mio antenato era profondamente cambiato nel suo spirito. Prima di tutto, aveva cominciato a dubitare della veridicità di questa profezia che continuamente e sistematicamente li eludeva. Poi, aveva constatato che il fiorire da ogni parte di comunità che dicevano di ispirarsi alla genuina Via di Qumran era, per lo più, dovuto all'opera di carrieristi che cercavano il potere, sfruttando la fede e la credulità delle masse. Vivere a Roma, poi, gli aveva fatto vedere e toccare con mano la potenza di questo impero, la sua solidità amministrativa e politica, la sostanziale giustezza delle sue leggi, la grande civiltà e l'alto grado di sofisticazione e cultura della sua classe dirigente, la tolleranza accordata ad ogni serio credo religioso o filosofico. Si rese conto di quanto marginali e poco importanti fossero i problemi della nazione ebraica nel contesto dello scacchiere politico mondiale dell'epoca. Cominciò addirittura a chiedersi se sarebbe stato un bene consegnare il dominio del mondo a quella miriade di profittatori che sembravano emergere dappertutto, nel mondo ebraico, in Palestina, in Asia Minore e nella stessa Roma, oscuri personaggi, per lo più, che si atteggiavano a condottieri religiosi senza avere la necessaria statura morale e il carisma.
Cominciò probabilmente ad avere dubbi più seri. Come era possibile che un Dio giusto e onnisciente avesse scelto come suo popolo eletto della gente assolutamente senza alcun peso nella storia del mondo, per di più abitante in un luogo geografico completamente privo d'ogni importanza strategica? Addirittura, come può un Dio giusto scegliersi un popolo eletto e trascurare i milioni degli altri Suoi figli, da Lui messi a popolare il Suo mondo? Può Dio essere così ingiusto e parziale?
Era poi gravemente scandalizzato dalla strumentalizzazione e dalla falsificazione delle vicende della sua stessa vita e dallo stravolgimento dei suoi insegnamenti, sistematicamente praticato dal fanatico che già s'era già fatto notare a Qumran, nel 37, allo scopo di incantare le masse ignoranti e fare proseliti da incanalare in una concezione della Via tutta sua personale e in netto contrasto con l'ortodossia di Qumran. E così perse interesse per quello che gli avveniva intorno.
Oltre tutto aveva ancora vivi nel suo cuore i ricordi dei suoi viaggi di gioventù tra le perdute pecore di Israele in Media e nei Paesi misteriosi che si estendevano ancora più a oriente. Cominciò a chiedersi ogni giorno con maggiore interesse quante di queste perdute pecore avessero oltrepassato l'Hindu Kush, per raggiungere le vaste pianure dell'immensa terra che si estendeva al di là delle grandi montagne che aveva viste nella sua gioventù, si ricordò con grande nostalgia gli studi filosofici che aveva compiuto da giovane alla scuola di vecchi saggi in quelle terre lontane ed ogni giorno aumentava nel suo cuore il desiderio di compiere fino in fondo il suo dovere dinastico e, quindi, di rimettersi in viaggio per quelle stesse terre, alla ricerca di quelle perdute pecore, a cui portare il messaggio di Qumran e della vera fede, da strappare, eventualmente, ai rischi dell'idolatria e da fortificare nella fede dell'unico vero Dio.
Gli ebrei di Roma, sia quelli ortodossi che gli ellenizzati, avevano cominciato a prendere parte a ribellioni fomentate da arruffapopoli per meschini interessi di potere personale a cui il mio antenato non era affatto interessato, perchè egli viveva per testimoniare la grandezza dell'unico Dio creatore di tutto e tutti e considerava come una sua sacra missione predicare al mondo gli alti ideali etici di amore, di tolleranza, di armonia che aveva appreso in gioventù da quelle strane genti, seguaci di un antico principe santo, che abitavano a sud delle grandi montagne attraversate dalla via della seta, dopo la Persia e l’Afghanistan, che i viaggiatori, a cui suo padre lo aveva affidato da adolescente, gli avevano fatto percorrere in giorni ormai lontani. Egli, che non aveva mai cercato il potere sugli altri, a un certo punto, senza neppure accomiatarsi dai suoi adepti tanto cambiati, un bel giorno, lasciò la città eterna, all'epoca del grande incendio che avvenne al tempo di Nerone, per avviarsi lungo quegli itinerari verso l'oriente che già accesero la sua fantasia ed il suo interesse di fanciullo, dimostrando così, ancora una volta, la lungimiranza di suo padre. È infatti molto probabile che la scelta del mercante a cui fu affidato da adolescente non fu casuale, ma dettata dal desiderio di suo padre che egli si rendesse conto del gran numero di ebrei della diaspora viventi ad oriente della Palestina e della Giudea, per centinaia e centinaia di miglia, fino al subcontinente indiano, gente che aveva abbandonato la Giudea e la Palestina prima che Josuè costruisse il Secondo Tempio e abolisse, nel settimo secolo a. C., l'uso generalizzato del sacrificio di animali a Dio, gente verso cui la sua famiglia aveva però sempre e comunque dei precisi e irrinunciabili doveri dinastici.
Non si sa con che mezzi raggiunse l'odierno Afghanistan, ma è un fatto che egli lasciò vistose tracce del suo passaggio in quel paese, ancora evidenti al giorno d'oggi.
Alcune di queste tracce sono incredibili. Pensa che c'è, in Afghanistan, una tribù, oggi musulmana, che si ritiene discendere da lui e che infatti di lui porta il nome.
Arrivò così, visitando l'una dopo l'altra le tante comunità ebraiche che costellavano quelle regioni, fino a Srinagar, probabilmente toccando Herat, Kabul e Peshawar, come facevano le carovane del tempo. La sua vecchia madre, fiaccata dagli strapazzi del lungo viaggio, morì prima che la loro carovana raggiungesse il Kashmir e venne sepolta a Mari, un piccolo centro situato 70 chilometri ad est di Taxila, dove la sua tomba continua ad essere onorata fino ai nostri giorni, specie da noi musulmani.
Evidentemente questo posto meraviglioso, all'ombra di queste maestose montagne, ispirò pace al suo spirito e qui continuò a tornare continuamente, dopo ognuno dei mille viaggi che lo portarono a visitare un po' tutta l'India. Probabilmente, un'altra ragione per fermarsi in questa regione fu che allora, in Kashmir, la maggior parte degli abitanti erano ebrei della diaspora.
Lo so che la cosa ti stupisce, ma, te lo ripeto ancora una volta, non ti far ingannare dal fatto che oggi i Kashmiri, gli Afghani o i Patan siano musulmani devoti, perchè questa gente discende direttamente dagli antichi ebrei della diaspora. Guardane bene le fattezze, gli abiti tradizionali ancora usati nei villaggi, il loro modo ieratico di comportarsi e ti renderai subito conto del perchè, tutti i viaggiatori del tempo andato riportarono nelle loro cronache e nei loro diari l'impressione di trovarsi, quando viaggiavano per l'Afghanistan o per il Kashmir, nel bel mezzo di comunità ebraiche. Lo stesso nome 'afghan' ha un'etimologia ebraica che significa 'valoroso'.
Fu un po' dappertutto in India, dove si trovavano comunità ebraiche, come, per esempio, i Bani Israel di Bombay, gli abitanti di Kala Dakah, la gente di Hazara e tante altre comunità.
Visitò e lasciò vistose tracce in Punjab, paese che attraversò prima di arrivare in Kashmir dall'Afghanistan. In Punjab sono state addirittura trovate, in luoghi diversi, due monete, coniate in suo onore da due diversi sovrani locali tra il 60 e il 70 d. C., una delle quali riporta il suo nome e l'altra anche la sua effigie.
Fu sicuramente anche in Tibet e in Nepal, come testimoniano le numerose pergamene in lingua pali, conservate dai lama tibetani in diversi loro conventi, ma specialmente a Lhasa.
Il contenuto di questi testi venerati dai lama del Tibet, narra come l'uomo sepolto là fuori venne per la prima volta in contatto, a Sind, con le dottrine etiche del Buddha, che studiò con interesse, e descrive in dettaglio i suoi viaggi. Secondo questa descrizione, egli passò da Sind più a sud e soggiornò con gli Aryas; viaggiò ancora una volta per la terra dei cinque fiumi, l'odierno Punjab; fu in Rajputana, l'odierno Rajasthan. La sua presenza è segnalata a Juggernaut, Rajegriha, Benares, dove si scontrò con i Brahmini e i Kshatryia (i guerrieri), offesi dal fatto che egli considerava tutti gli uomini uguali di fronte a Dio e negava la Trimurti e le incarnazioni di Brahma negli altri innumerevoli dei del pantheon indù, convinto dalla superiorità del suo pensiero teologico, che postulava un solo Dio, Signore di tutti, immutabile, increato, eterno, impensabile, non raffigurabile, non aggettivabile. Fu uno scontro violento perchè cercarono di ucciderlo ed egli riuscì, appena in tempo, a mettersi in salvo con la fuga.
Un qualcosa di mirabile avvenne in occasione di queste sue visite alle comunità buddhiste.
Devi sapere che il Buddha, alla sua morte, avvenuta oltre 500 anni prima dell'arrivo in India del mio antenato, profetizzò che, appunto, dopo 500 anni egli, il Buddha, si sarebbe reincarnato in un principe straniero, di pelle bianca (il Buddha era di pelle scura), che sarebbe venuto dal nord e che, come lui, avrebbe parlato per parabole, per cui, i monaci buddhisti dell'epoca, che fino ad allora avevano conservato con puntigliosa cura e grande amore l'insegnamento del Buddha, non ebbero difficoltà a riconoscerlo come il Buddha stesso reincarnato, a circondarlo perciò del massimo rispetto e a registrarne i suoi insegnamenti, considerandoli come provenienti direttamente proprio dal Buddha.
Siccome è proprio in quell'epoca che gran parte dell'insegnamento morale del Buddha viene consegnato alla lingua scritta, la verità storica più probabile è che la morale buddhista dell'amore, della tolleranza e della non violenza, così come essa è pervenuta ai nostri tempi, per mezzo dei sacri testi custoditi nelle più importanti lamaserie, tragga in parte la sua origine anche dall'insegnamento dall'uomo sepolto là fuori e non soltanto direttamente dal Buddha.
Lo sai che nella lamaseria di Hemis, in Ladhak, sono conservate ben ottantaquattromila pagine che parlano del mio antenato e della sua presenza fra loro sia da adolescente che dopo la sua fuga dalla Palestina, fino a quando si stabilì definitivamente qui a Srinagar?
Lo sai che la storia dettagliata della sua vita qui a Srinagar a partire dal suo arrivo, è rigorosamente e puntigliosamente registrata dalle cronache della corte del re del Kashmir, Gopadat, che lo onorò e lo tenne sotto la sua protezione fin dal momento in cui lo incontrò che discendeva dalle montagne, seguendo la pista che dal Ladhak portava a Srinagar?
Lo sai che sulla scalinata del cosiddetto Trono di Salomone, un tempio che re Gopadat fece restaurare nel 100 d. C., l'anno della morte del mio antenato, quel re fece scolpire tutta la biografia del mio antenato, narrata in prima persona e tuttora perfettamente leggibile?
Questo instancabile e pio viaggiatore morì, infatti, qui a Srinagar, onorato e rispettato da tutti, in tardissima età, come è frequente in queste montagne e queste valli incontaminate e, da allora, riposa in quella tomba.
Si chiamava Issa di Qumran, figlio di Yusuf, della reale stirpe di Daud.
In occidente lo conoscete come Gesù di Nazareth, figlio di Giuseppe, pronipote di re Davide.
Purtroppo, la blasfema abitudine del paganesimo greco-romano di divinizzare gli eroi, vi ha fatto perdere di vista la vera storia della meravigliosa vita di questo grande uomo".
* * *
Se il mio cortese e colto interlocutore si fosse improvvisamente trasformato in un dinosauro, mi sarei sorpreso di meno.
Rimanemmo tutti e due in profondo silenzio per diversi minuti, durante i quali, ascoltavo, senza udirli, i rumori della notte che penetravano dall'ampia finestra affacciata su quella Tomba, all'improvviso divenuta così importante ai miei occhi.
I miei pensieri si dipanavano come un turbine in mille direzioni, richiamando dalle profondità di quella parte di memoria che normalmente non usiamo coscientemente, concetti perduti, passate letture, brani di vecchie conversazione, idee latenti e intuizioni dimenticate, che le ultime parole del Dottor Yusuf Daud avevano improvvisamente messo in logica relazione col suo racconto, il cui senso compiuto era sfuggito alla mia esplicita comprensione, ma evidentemente non al mio subcosciente.
Certo, Gesù che cammina sulle acque, Gesù che risuscita Lazzaro (perchè Lazzaro e Simone o Simon Mago sono altrettanti nomi usati in testi diversi per la stessa persona, come già avevo letto da qualche parte, in passato), Gesù che rovescia i banchi dei cambiavalute al tempio, il buio in pieno giorno nel momento della presunta morte di Gesù.
Anche quelle che gli esperti chiamano le cosiddette imprecisioni di Luca scompaiono, se la crocifissione avviene a Qumran anzichè a Gerusalemme.
Addirittura, è solo nel contesto di quel racconto che la crocifissione di Gesù ha una logica, perchè quanto mi avevano insegnato da bambino che Gesù fu condannato a morte dal Sinedrio e crocefisso non ha alcun senso storico; è una cosa impossibile, alla luce delle leggi del tempo, perchè gli ebrei eseguivano le loro condanne a morte mediante soffocazione o mediante lapidazione, mentre i Romani crocefiggevano soltanto coloro che si erano ribellati a mano armata allo stato. Quindi o Gesù era stato condannato a morte dal Sinedrio per reati di natura teologica e quindi avrebbe dovuto essere soffocato o lapidato, oppure, se era stato condannato alla crocifissione dai Romani, allora doveva essere stato trovato colpevole di reati contro la sicurezza dello stato e non di reati di natura teologica.
Maria Maddalena, che, tra le righe, appare un po' più di un'occasionale conoscenza, anche se l'ingombrante natura divina ascritta a Gesù ci impedisce di vederlo meglio.
Certe frasi ('Io sono la via, la verità, la vita') avevano assunto un significato molto più preciso e circoscritto.
"Il tuo racconto spiega bene alcuni episodi della vita di Gesù, trasfigurati poi in miracoli", gli dissi. "Che mi dici degli altri miracoli a lui ascritti, come la trasformazione dell'acqua in vino e la moltiplicazione dei pani e dei pesci? A proposito, come si chiama la tribù afghana che prende il nome da Gesù e che mi sai dire di più sulla tomba di Maria, che mi hai citato nel tuo racconto?"
"Sono gli Issa-Khel, i Congiunti di Gesù. Secondo la tradizione di questa gente, Gesù, durante la sua fuga dalla Palestina, soggiornò a lungo con loro, i suoi figli sposarono persone della tribù e rimasero con questa.
In quanto alla tomba di Maria, essa si trova sul Pindi Point, una montagna poco al di fuori della cittadina di Mari, come scriviamo oggi in una grafia fonetica, trascritta invece, in certe vecchie mappe inglesi, come Murree, ma pronunciata allo stesso modo. La località si trova a circa 170 chilometri da Srinagar. All’epoca in cui Gesù passò di lì, le popolazioni locali erano indù e, come tali, non seppellivano i loro morti, ma li cremavano e abbandonavano le ceneri nel più vicino corso d’acqua o le spargevano nella campagna. I musulmani hanno sempre saputo che quella era la tomba della madre di Gesù ed infatti, quando, nell’ottavo secolo, le loro armate dilagarono verso sud, esse distrussero quasi tutti gli edifici religiosi degli indù, che essi consideravano idolatri, ma rispettarono, onorarono e custodirono questa tomba, piantandoci un bel giardino tutto intorno. È interessante notare che essa è orientata in direzione est-ovest, come la tomba di Gesù là fuori, secondo l’antico costume ebraico, mentre invece i musulmani prediligono un orientamento nord-sud. Se vai a visitarla, devi chiedere del “Mai Mari da Asthan”, che significa il luogo del riposo finale della madre Maria, ma, a causa dei problemi che sai, è difficile che le autorità militari ti diano i permessi necessari.
Vedi, tanto i Vangeli e gli Atti degli Apostoli, quanto le narrazioni dei rotoli del Mar Morto e del Documento di Damasco, hanno una precisa chiave di lettura che permette di decrittare concetti che sembrano fantasie in fatti particolari e ben precisi, purchè uno conosca i presupposti necessari a usare questa chiave. Questa tecnica di lettura si chiama, in ebraico, pesher ed ha regole ben note agli specialisti, anche se nessuno s'è mai degnato di parlarne dai pulpiti ai fedeli.
Per farti capire bene cos'è un racconto pesher, fammiti dare un esempio, inventandomi una breve storia fantastica, ma verosimile. Questa: 'Da un altro mondo venne portato un seme. Questo fu piantato nel terreno che sta fra la montagna e il mare, fra la luce di tutti e la luce dei singoli. Abili giardinieri lo curarono continuamente, in modo che il seme germogliò e produsse radici che, lentamente, si espansero tutto intorno, sempre più forti, sempre più lunghe e profonde, nell'humus nutriente e ricco che le circondava. Per far crescere il debole germoglio e farlo diventare un albero forte, i solerti giardinieri distrussero, fra lampi di luce e crepitio di grandine, tutta la vegetazione che poteva soffocare la loro pianta. Finchè questa divenne un grandissimo albero con rami estesi a proteggere l'intera città, che, da allora, visse nella sua ombra'.
Che cosa ne fai di questa storia?"
"Mi sembra una narrazione, magari con qualche poetica fioritura che ricorda il linguaggio biblico, del trapianto del seme di un albero esotico in un habitat diverso da quello suo originale, la cui crescita è un po' stentata all'inizio, ma poi avviene molto rigogliosa, dopo un periodo di acclimatazione" risposi.
"Giustissimo, questo è il significato generale, il significato per tutti. Ma questo, per determinati iniziati, può pure essere il racconto pesher della conquista della città di Genova da parte di un'ipotetica organizzazione mafiosa chiamata dai suoi membri e in segreto l'Albero.
Stai a sentire: da un altro mondo, quello del crimine, arrivano pochi mafiosi in quel luogo che sta fra la montagna e il mare, fra la Lanterna e le case della gente. Chi ha occhi per vedere ed orecchie per intendere sa che parliamo di Genova, che uno può identificare sia per la sua posizione geografica stretta fra la montagna e il mare, sia per il suo simbolo, il faro che tutti chiamano affettuosamente la Lanterna. Lentamente, gradualmente, la mala pianta mette radici nell'humus ricco della città (le banche, i commerci, i partiti, i sindacati). Quelli che si oppongono alla crescita della pianta (giudici o poliziotti che siano) vengono eliminati fra lampi di luce (le autobombe) e crepitio di grandine (raffiche di pistole mitragliatrici). Finchè la mala pianta cresce e controlla tutta la città, che finisce sotto l'ombra dell'Albero".
"Scusami, Yusuf, ma tu come fai ad avere cognizioni così precise di Genova, che ne sai tu della Lanterna?"
"Semplice. Appena finita l'Università, sono stato ufficiale nella Royal Navy ed ero imbarcato sulla Regia Nave Cattistock, una dragamine, che, insieme con altre, ha passato quasi un anno nel Mediterraneo. Abbiamo fatto tantissimi addestramenti e crociere con la Marina Italiana e facevamo base al porto militare di La Spezia. Ho passato quindi un mucchio di tempo nella vicinissima Genova, in licenza o in libera uscita. È una città che mi piace moltissimo. Ed anche i suoi abitanti. Spero, anzi, che mi perdonino di aver usato la loro città per una storia che certamente non vorranno che mai si possa avverare.
Se leggi le Scritture e i documenti del tempo con questa chiave di lettura, allora ti spieghi bene anche gli altri cosiddetti miracoli.
I Gentili battezzati nel mare, l'acqua meno nobile a loro riservata, venivano chiamati anche i pesci. Iniziarne tanti e tutti insieme, mediante questo battesimo purificatore, significava moltiplicare i pesci.
Per quanto riguarda i pani, devi sapere che era funzione dei leviti quella di spezzare, appunto, il pane durante il rito del sacro pasto riservato agli iniziati. Con una traslazione retorica ben nota in linguistica ed usatissima nell'ebraico e nell'aramaico, chi spezzava regolarmente il pane, perchè questa era una sua prerogativa, veniva chiamato anche 'pane'. Moltiplicare i pani significa quindi moltiplicare i leviti, ciò che Gesù faceva continuamente, quando affermava che chiunque, anche i convertiti gentili, potevano aspirare a funzioni sacerdotali, nè più e nè meno che tutti gli altri ebrei etnici, membri della setta.
La trasformazione dell'acqua in vino, significa invece che quei convertiti che i tradizionalisti non ritenevano degni di assumere il vino sacro e dovevano limitarsi all'acqua o bere solo il normale vino non benedetto che accompagnava i pasti, quello 'cattivo', ricevettero da Gesù il riconoscimento del diritto di bere anche loro il vino cerimoniale, quello benedetto, rituale, 'buono', cioè il diritto di essere considerati dello stesso rango e dignità, di fronte a Dio, degli ebrei etnici.
Come vedi, tutto è assai semplice, anche i miracoli. Dio è onnipotente nel momento in cui crea, poi, però, deve anche Lui rispettare le regole di natura che ha create e non può permettere atti che sospendano queste Sue leggi. Può infatti Dio, oggi, disegnare un triangolo la cui somma degli angoli interni sia diversa da 180 gradi? Hai mai sentito parlare di un miracolo in cui una gamba amputata ricresce? In tutte le religioni si parla di miracolose guarigioni da cancri o da paralisi, cose che voi medici credo vediate fin troppo spesso, perchè dobbiate postulare una sospensione delle leggi naturali, ma la rigenerazione di un arto amputato...?"
L'argomentazione era ineccepibile.
"Dimmi ancora," gli chiesi "chi è il personaggio che compare nel 37 a Qumran e che continua ad apparire parlando di Gesù in seguito e che, evidentemente, non ti piace perchè lo definisci un fanatico? È Paolo di Tarso?"
"Esattamente. È lui l'inventore del Cristianesimo come è stato tramandato fino ad oggi. Fu un manipolatore senza etica, pronto a qualsiasi inganno ideologico per servire il suo scopo di diventare un predicatore acclamato, un capo religioso. Ti do qualche esempio illuminante. Se tu potessi viaggiare nell'Impero romano all'epoca di Gesù, o anche un secolo prima della sua nascita, specie in Asia Minore, in Grecia e nella stessa Italia, e chiedessi alla gente per la strada se sanno chi è il dio che nacque da una vergine in una grotta, che fu onorato da pastori con semplici doni, che morì, fu sepolto e risorse al terzo giorno, tutti ti risponderebbero subito che è Tammuz, il cui culto era, a quel tempo, diffusissimo in tutto l'impero. In alcune province Tammuz era noto anche come Adone, in altre come Astarte, ma era la stessa entità. Stranamente (o dobbiamo dire significativamente?) Betlemme era uno dei centri maggiori di questo culto.
Paolo usò tutti gli elementi più accettati e creduti che trovò già esistenti nelle varie religioni locali e nei vari culti misterici, con cui si trovava a competere, appropriandosene per costruire la sua teologia, ma saccheggiò a man bassa l'antico culto mithraico dei Sumeri e dei Fenici, un culto d’origine zoroastriana.
Questo culto postulava infatti un'apocalisse finale, un giorno del giudizio, una resurrezione della carne ed un ritorno di Mithras per sconfiggere definitivamente il principio del male. Perfino la dottrina della transustanziazione, secondo cui, con parole magiche suggerite da Dio, si trasforma il pane ed il vino nel corpo e nel sangue del Dio stesso, è una rito della religione mithraica che i legionari portarono a Roma nel 300 avanti Cristo, dopo avere combattuto in Persia e dopo essersi lì convertiti al culto di Mithra. “Se non mangerai il mio corpo e non berrai il mio sangue, affinché io sia uno con te e tu sia uno con me, non sarai salvato” sembra una frase tolta di sana pianta da una lettera di San Paolo o dai Vangeli e, invece, era una massima essenziale del culto di Mithra. Anche il concetto della resurrezione della carne e del giudizio finale è stato prelevato dai fondatori del Cristianesimo nelle dottrine dei culti mithraici (ed infatti non ce n’è traccia nella Bibbia). Questo turbò non poco Tertulliano, che, disperato per la sua fede, spiegò il fatto come un furbissimo imbroglio del demonio il quale, sapendo in anticipo che Gesù avrebbe, nell'ultima cena, istituita l'Eucaristia, si inventò e diffuse sulla terra, tre secoli prima, il culto di Mithra per minare l'attendibilità del sacramento prima ancora che fosse creato, un artificio polemico fondato su una logica un po' tirata per i capelli.
Insomma, Paolo si appropriò di tutti questi preesistenti riti, vi sostituì Gesù, grandemente scandalizzandolo, allo scopo di manipolare le menti dei semplici, strapparli alle loro proprie religioni e farli diventare suoi seguaci. (A proposito, sai quando veniva celebrata la ricorrenza della nascita di Mithra? Il 25 dicembre!).
Deve essere per ragioni simili ed anche perchè, mentre Lui predicava amore, gli altri si aspettavano che comandasse una sollevazione militare contro i romani, che un turbatissimo e scandalizzato Gesù decise ad un certo punto di mollare quella banda di esaltati e venire da queste parti a cercare non solo le sue pecorelle smarrite, ma anche pace e pulizia mentale".
E fu così che trascorsi i giorni che m'ero riservati per visitare il Kashmir a leggere avidamente le traduzioni dei rotoli di Qumran, del Documento di Damasco, di vangeli apocrifi, di testi musulmani, di libri sacri ai buddhisti e a fare domande su domande al mio colto e gentile anfitrione, per imparare sempre più cose della vera storia della meravigliosa vita di questo grande uomo, come aveva molto giustamente detto il Dottor Yusuf Daud, col risultato che, anche quella volta, non riuscii a visitare il Kashmir e che, da quel giorno mi si accese nella mente un’incontrollabile curiosità, che mi tenne impegnato per diversi anni, dedicati a studiare quel mondo inaspettato che Yusuf Daud mi aveva fatto intravedere e, debbo dire, mi pesò enormemente il dover fare ritorno a casa.
La prima cosa che mi venne in mente, già durante il volo di ritorno, era che la traduzione del nome del mio anfitrione nelle nostre lingue era quanto mai consona: Giuseppe Davide! Questa osservazione, però, seppure mi fece sorridere, non mi aiutava per niente a ridare alle cose che Yusuf Daud mi aveva fatto scoprire una parvenza di ordine logico, dopo il terribile rimescolio che le parole del mio affascinante anfitrione avevano causato nella mia mente, perché proprio non sapevo da che parte incominciare e questo tentativo di far ordine nella mia mente, che mi tenne sveglio per tutto il volo (in aereo io dormo sempre come un ghiro) mi occupò per parecchi anni.
Decine di osservazioni mi si affollavano tumultuosamente nella mia mente senza che riuscissi a dare alcun ordine logico a elementi ora linguistici, ora psicologici, ora storici, ma le cose che più perentoriamente mi venivano in mente erano, in fondo, poche.
Il bisogno di trascendenza dei sofisticati cittadini romani della tarda Repubblica e dell’Impero non poteva certo essere soddisfatto dagli dei dell’Olimpo classico, con i loro ridicoli comportamenti da gentarella scervellata e senza dignità ed era quindi una necessità fisiologica di quel mondo il cercarsi sistemi religiosi filosoficamente più logici ed eticamente più rispettabili. Questo bisogno, la cui forza vitale e la cui nobiltà appaiono evidenti a chiunque legga, per esempio, Seneca, dette luogo alla fioritura dei cosiddetti culti misterici che avvenne un po’ dappertutto attorno al Mediterraneo e continai a stupirmi sempre di più ripensando a quando Yusuf Daud mi aveva fatto notare e cioè che assolutamente tutti gli elementi che costituirono il corpo dottrinario del nascente Cristianesimo, provenivano da culti già esistenti, compresa la peculiare dottrina della transustanziazione e che lo stesso concetto della resurrezione della carne e del giudizio finale, era stato prelevato dai fondatori del Cristianesimo nelle dottrine del culto di Mitra (ed infatti non c’è traccia di queste idee nella Bibbia).
Tutti sappiamo che questi stessi fondatori si appropriarono praticamente di tutte le festività e le celebrazioni religiose pagane di Roma, innestandoci sopra storie cristiane e trasformandole in celebrazioni cristiane, a cominciare dalle feste natalizie!
Celso, il pensatore greco del II secolo che tanto polemizzò con i Cristiani, conferma puntualmente queste osservazioni, anche se i suoi testi originali sono, purtroppo, andati in gran parte perduti e i suoi scritti ci sono pervenuti, paradossalmente, dalle citazioni alla lettera che Origene fa nella sua interessante e appassionata trattazione in difesa della nascente ortodossia cristiana intitolata, appunto, “Contra Celsum”.
L’uso iniziatico (pesher) delle parole del linguaggio biblico, spiega certi miracoli e tante altre stranezze, come ha fatto notare il Dottor Yusuf Daud. Ma altre nozioni linguistiche che non mi erano note all’epoca di quella mia trasferta di polo in India nel 1994 danno da pensare.
Nel narrare che uno ha iniziato un’attività commerciale finita in bancarotta, è possibile fare uso di un’immagine retorica e dire, per esempio, “Quell’impresa è stata la mia Waterloo, perché ci ho perso tutto”. Chi parlasse così non si riferirebbe certamente alla Waterloo geografica, ma ad un luogo della mente in cui ha subito un terribile rovescio di gravità paragonabile a quello subito da Napoleone combattendo nella località geografica che si chiama, appunto, Waterloo. Ebbene, usando questa figura retorica in aramaico o in ebraico antico, la parola Waterloo andrebbe declinata al plurale, ma fatta seguire dal verbo coniugato al singolare.
Ora, esperti mi assicurano che nei testi aramaici in cui si parla della vicenda di Gesù, la parola Gerusalemme è sempre trattata secondo questa regola sintattica, cioè al plurale, ma seguita dal verbo al singolare, perché tutto ciò che della vita di Gesù viene descritto come accaduto nella Gerusalemme geografica, è in effetti accaduto nel luogo che era per gli scriventi, la loro Gerusalemme ideale e, cioè, Qumran, come chiunque abbia visitato i due luoghi deve almeno aver sospettato, perché, per esempio, dalla spianata del tempio di Gerusalemme non si può vedere il luogo della crocifissione, com’è scritto nei Vangeli, mentre invece, dalla spianata del tempio di Qumran sì, per cui i testi evangelici che appaiono scorretti ed imprecisi, se applicati alla Gerusalemme geografica, sono corretti, se applicati alla topografia di Qumran.
Un esempio eclatante di questa figura retorica si trova nientedimeno che nel primo versetto della Genesi “In principio Dio creò il cielo e la terra” che in ebraico suona “Bershit barà Elohim” in cui il verbo creò (barà) è al singolare ed il soggetto Elohim (dei, non dio!) è al plurale, col che il versetto ha un significato totalmente diverso da quello datogli nelle traduzioni ufficiali perché significa che l’autore, senza prendere alcuna posizione o assumersi alcuna responsabilità, dice che, in principio, qualcosa o qualcuno che se lo poteva permettere (una divinità…? Una singolarità, come i fisici teorici moderni chiamano ciò che ha causato il big bang…? Qualcosa di altro che non sappiamo immaginare…?) creò il cielo e la terra.
C’è poi un altro brano dei Vangeli che dà molto da pensare. Gesù, prima di perdere conoscenza, invoca “Eli, Eli, lamma zabaktani” (usando una traslitterazione un po' più corretta di quella adottata dalle traduzioni ufficiali dei Vangeli) che i presenti, esattamente come i moderni biblisti, non capiscono, tanto che pensano che Gesù si stesse rivolgendo a Elia.
In India ho scoperto che nella lingua liturgica usata dagli iniziati Veda, tuttora usata in una vallata del Kashmir, quelle parole significano “Signore, Signore, accoglimi nella tua luce”, il che mi sembra un ulteriore significantissimo riscontro circa la veridicità della iniziazione vedica di Gesù. Altrimenti, perchè un uomo stremato da torture indicibili, che non ce la fa più a respirare e si sente morire, avrebbe dovuto esprimersi in questa lingua se non perché questa era sacra, per lui come per tutti i suoi co-iniziati? Se Gesù, perdendo conoscenza, trova naturale e spontaneo pregare in quella lingua, vuol dire che, evidentemente, era abituato da lungo tempo a farlo e, quindi, si comporta esattamente come, in circostanze analoghe, si comporterebbe un sacerdote cattolico del buon tempo andato, abituato, da sempre, a pregare in latino, cioè nella lingua iniziatica da lui comunemente e costantemente sempre usata per parlare con Dio. Io stesso, se dovessi recitare le preghiere cattoliche più comuni (diciamo il Padre nostro, l’Ave Maria , il Credo o l’Atto di dolore, lo saprei fare solo in latino e, se mi fosse chiesto di dirle in italiano, dovrei prima richiamare alla mente le singole frasi in latino e poi tradurle di volta in volta. Perché mai Gesù avrebbe dovuto invocare Dio in quella lingua se non fosse stato un iniziato ai Veda e scusatemi se insisto e mi ripeto?
Una lettura parallela del Bhagavad Gita (il testo sacro dei Veda) e dei Vangeli chiarisce immediatamente il dubbio e ci fa capire come la predicazione di Gesù non sia stata altro che il generoso e nobile tentativo da parte di un uomo onesto, buono e pensoso di umanizzare la crudeltà ufficiale dell’ebraismo farisaico in cui non c’è mai né misericordia né perdono, ma la spietata etica dell’occhio per occhio, dente per dente. Per esempio, la paradigmatica espressione riferita dai Vangeli a Gesù “Se vi percuotono una guancia offrite l’altra” è un concetto vedico che risale a 4000 anni avanti Cristo e che, certamente Gesù deve aver studiato durante la sua permanenza alle scuole vediche in Ladhak!
Ma non basta. Lo studio dei Veda rivela altre cose che fanno pensare.
Dio come essere unico, immutabile, senza forma nè attributi è un concetto vedico (e sarebbe interessante riuscire a tracciare le vie per cui tale concetto ha raggiunto dall’India Akhenaton, il faraone eretico di cui parleremo fra poco).
La storia di Adamo, Eva e il demonio è una versione comprensibile per gente semplice e ignorante, come erano gli ebrei di Abramo e di Mosè, dei seguenti principi vedici: Purusha, il principio vedico "maschile", intelligente e organizzante, la “teoria”, è adombrato da Adamo, mentre Prakriti, la potenzialità e la corposità, cioè la “pratica”, è adombrata da Eva; il serpente simbolizza Shakti, la fonte di energia necessaria per la creazione. Ed è l'interazione delle tre entità suddette che dà luogo a Maya, che è, appunto, la creazione.
I vangeli gnostici ed il vangelo segreto di Marco sono anch'essi filosofia vedica allo stato puro e gli gnostici sono infatti quelli che conservavano allo stato più puro il più vero insegnamento di Gesù. Poi la storia e, soprattutto, ragioni politiche di potere che rendevano necessario un tipo di Cristianesimo più adatto a controllare le masse che non altre versioni più spirituali, li misero definitivamente a tacere.
Leggendo il Corano, si trovano parole di grande rispetto e venerazione per Gesù e nulla che sia in contrasto con quanto si insegna nelle nostre scuole di catechismo (salvo la sua natura divina), fino però a quando non si parla di crocifissione, perché a questo punto il Corano dice che sulla croce non c’era il vero Gesù, ma un suo simulacro.
Come spiegare questa discrepanza se non postulando che, all’epoca di Maometto, era ancora conservata in qualche modo la memoria storica secondo cui Gesù non morì in croce?
D’altra parte, chiunque abbia un po’ di consuetudine con la letteratura latina e la storia di Roma, sa benissimo che, per morire in croce ci voleva circa una settimana, il tempo minimo perché, con la perdita del tono muscolare, si riducesse l’escursione respiratoria e si instaurasse un’insufficienza respiratoria terminale.
Il colpo di lancia del soldato romano? Sempre che sia veramente accaduto e non si tratti di un altro prestito da miti precedenti, come il mito di Tammuz o Astarte, di cui abbiamo già parlato, in cui il dio muore con una ferita al costato, c’è da dire che, se veramente accaduto, il patologo esperto lo interpreterebbe in modo diverso. Infatti, il Vangelo parla di fuoriuscita di acqua mista a sangue, suggerendo al perito medico-legale che, se era riconoscibile l’acqua, di sangue ce ne doveva essere pochino per cui la punta della lancia doveva essere penetrata semplicemente in cavo pleurico, facendo così defluire l’essudato reattivo che ci si deve aspettare nella cavità pleurica di in uno il cui torace aveva poco prima ricevuto i tanti e violenti colpi di frusta che la fustigazione in uso a quel tempo infliggeva, ma senza che organi interni capaci di sanguinare a morte (fegato, cuore o milza) fossero stati lesi dal colpo di lancia!
Insomma, non serve inventarsi impropri usi di antichi miti per amare quest’Uomo e per ammirare il coraggio e la dedizione al compito, che s’era prefisso, di umanizzare i comportamenti degli ebrei suoi coevi, anche se, pur mettendocela tutta, non riuscì ad avere un grande successo; non serve trasformare lo spirito di quei miti per apprezzare la sua coerenza con se stesso ad ogni costo e per simpatizzare con lui quando, capita l’inutilità della sua predicazione in Palestina, decise di tornarsene ai suoi studi ed alle sue meditazioni in un posto meno pericoloso e più aperto e tollerante.
Ricercando i contesti storici e scritturali in cui si prepara e poi si inserisce il destino di Gesù, ci si imbatte in diverse altre assurdità che, chissà mai perché, vengono regolarmente passate sotto silenzio, senza mai ragionarci sopra.
Per esempio, quanto può impiegare un invalido con le stampelle per andare a piedi dall’Egitto alla Palestina?
Forse una settimana. Certo non di più!
Ma allora come hanno fatto Mosè e il suo seguito a metterci quarant’anni, nonostante la fanfaluca dell’attraversamento del Mar Rosso? (Fanfaluca? Sì, perché quella storia inverosimile deriva da un grossolano errore di traduzione dell’espressione yamsuf che significa mare di canne, canneto e non Mar Rosso! Fuggendo dall'Egitto, Mosè dovette obbligatoriamente passare fra il Grande Lago Amaro e il Lago dei Coccodrilli, dove ci sono immense distese di canneti, che si possono ancor vedere al giorno d’oggi. Ora, se si cammina a piedi in un canneto, le canne vengono spinte a destra e a sinistra aprendosi come le pagine di un libro tenuto verticalmente e appoggiato sulla costa e si riesce a procedere speditamente, anche se con un po’ di fatica,. Gli egiziani inseguivano gli ebrei o a cavallo o sulle loro tradizionali bighe da combattimento, tirate da cavalli.
Io ho una grande consuetudine con i cavalli per aver giocato a polo in modo competitivo per decenni. Così ho avuto ed ho addestrato dozzine di cavalli per un tipo di equitazione in cui servono animali obbedientissimi e che non abbiano paura di niente. Ebbene è impossibile trovare un cavallo, anche uno naturalmente facile e perfettamente addestrato, che accetti di attraversare un folto canneto. Ci ho provato diverse volte, e con cavalli diversi, proprio per verificare la cosa sperimentalmente, ma ho dovuto constatare che anche cavalli obbedientissimi, coraggiosissimi e con un addestramento di prim’ordine si rifiutavano sistematicamente di entrare in un canneto.
Fare la stessa cosa con cavalli che tirano bighe sarebbe stato ancora più inverosimile e questa favola del Mar Rosso che si apre per far passare Mosè e la sua gente si spiega solo perché, ad un certo momento, un traduttore ignorante e incompetente, magari per via di qualche assonanza tra parole con suoni simili, ha incominciato a tradurre yamsuf ‘Mar Rosso’ anzichè ‘mare di canne’, una traduzione che fa ridere gli ebrei e, in genere, come mi dicono, tutti quelli che conoscono l'ebraico antico e l’aramaico! Poi, questo errore di traduzione si è fissato nelle versioni moderne della Bibbia, per esempio nell'imprecisissima Vulgata, tanto imprecisa da dover costringere
Tolta di mezzo la storiella del Mar Rosso che si divide, provate a sedervi da qualche parte in Palestina e leggetevi la descrizione biblica della Terra Promessa guardandovi intorno. Se lo fate, non potrete evitare di pensare che l’autore di quello che state leggendo deve aver scritto mentre era nel mezzo di un viaggio a base di acido lisergico, perché, mentre il testo descrive una paesaggio dolce, verdeggiante e pieno di acque fresche e vegetazioni lussureggianti, una terra di latte e di miele, voi vedete invece, intorno a voi, solo la siccità di un inospitale mondo desertico.
Andate poi a Srinagar e salite sul sovrastante Monte Nebo per rileggervi lì la descrizione biblica della Terra promessa e vedrete di fronte a voi esattamente quello che è descritto nelle pagine che state leggendo.
A Srinagar, se parlate con una locale guida turistica, non vi sorprendete troppo se questi vi propone di portarvi a visitare la tomba di Mosè, proprio sulla montagna al di sopra della vallata di Srinagar e da cui ammiravate, leggendo la Bibbia, il panorama (l'esistenza e l'ubicazione di questa tomba era nota anche a Maometto, che ne parla nel Corano, descrivendo esattamente dove trovarla, una cosa che mi pare proprio una prova del nove) e vi tornerà subito in mente che, secondo la Bibbia, Mosè morì senza entrare nella terra promessa, ma su una montagna da cui poteva vederla e come fate, allora, a non immaginare che forse c’è qualcosa di vero nella tradizione dei kashmiri, secondo cui loro sono i diretti discendenti degli antichi ebrei?
Continuando a riflettere e a ripensare agli anni che Mosè impiegò, secondo la tradizione, ad arrivare dove voleva, uno non può evitare di immaginare che, non conoscendo la strada per l’India, Mosè aveva abbandonato la via della seta, infilandosi erroneamente nella penisola del Sinai e non sapeva più né dove si trovava né dove stava andando, per cui, per riportare sotto controllo i suoi scocciati seguaci, che molto probabilmente si stavano ammutinando, ebbe la bella pensata di sparire su una montagna per un po’ e di dire poi che lì s’era incontrato di nascosto con Dio, faccia a faccia, per a farsi dare il Decalogo, con cui restaurò la necessaria disciplina fra i suoi seguaci, insieme con un rigoroso monoteismo e precise leggi. E qui, quelli poi che conoscono un po’ più a fondo la storia dell’Egitto faraonico, si ricorderanno che Mosè crebbe e fu educato all’ombra del cosiddetto faraone eretico, Akhenaton, il regnante che proibì il politeismo ed impose, probabilmente il primo nella storia dell’umanità a farlo, di credere ad un solo Dio, concepito secondo l’insegnamento vedico, come irraffigurabile, inimmaginabile, pura potenza ed assoluto essere, anche se, per non confondere eccessivamente i suoi sudditi abituati da sempre a corpose rappresentazioni visive e simboliche di mille diverse divinità, egli rappresentò questo Dio con la figura geometrica del cerchio, immagine che, negli anni seguenti, fu erroneamente interpretata come simbolo del sole. (Inutile ricordare che, alla morte di Akhenaton, il clero egiziaco, per riprendersi il potere che aveva perduto per colpa - o per merito? - di questo faraone illuminato, reimpose immediatamente il culto degli antichi dei e profanò in ogni possibile modo il ricordo del faraone eretico e la sua tomba. Vi aspettavate forse qualcosa di diverso da ministri del culto che avevano perso il loro potere di controllo delle masse e volevano riconquistarselo?).
Nulla viene riportato dai Vangeli circa la vita di Gesù nel periodo che va dal suo tredicesimo fino al ventinovesimo anno di età. Durante questo periodo di tempo, Gesù è molto probabilmente stato in India, alla ricerca delle sue pecore perdute di Israele. Lì venne in contatto con la filosofia vedica, ne fu affascinato, ne divenne allievo e, mediante le pratiche di meditazione a cui questa filosofia indirizzava, acquisì molti dei paranormali poteri di controllo su funzioni mentali e materiali del corpo di quegli iniziati e ciò ne fece un guaritore.
Nel tempio di Hemis, in Ladhak, in cui soggiornò a lungo prima di scendere a Srinagar, sono conservate ben 84 mila pagine di pergamena che narrano della sua vita in quei luoghi e della sua iniziazione vedica, oltre a un suo ritratto.
Le ragioni di questa puntigliosa documentazione sembrano essere dovute al fatto che egli, come discendente ultimo del mitico re Davide, era naturalmente circondato da grande rispetto nella feudale India dell’epoca e ciò, unitamente al carisma che indubbiamente doveva possedere, costituiva un sufficiente motivo per una documentazione diaristica, anche e soprattutto perchè egli stupiva continuamente i suoi maestri per la rapidità con cui progrediva nell'apprendimento della filosofia vedica e nell'imparare a sviluppare e controllare i poteri paranormali di controllo della fisicità che la meditazione trascendentale sa sviluppare (in India ho visto uno di questi santoni che, nel corso delle sue abluzioni rituali, aspirava litri di acqua attraverso l'ano, semplicemente sedendosi nel catino che la conteneva, per poi riemetterla quando decideva lui di farlo. Ripeteva l'atto fino a che l'acqua non fuoriusciva perfettamente limpida e, da medico, vi assicuro che, noi gente normale, non abbiamo meccanismi fisiologici spontanei e naturali per fare una simile cosa. Evidentemente le pratiche meditative dei Veda danno effettivamente a chi le pratica poteri paranormali di controllo sulla fisicità).
Dopo il tempo passato in Ladhak, ove arrivò fra il suo sedicesimo e diciottesimo anno di età, trascorse altri sei anni a Srinagar, sempre a scuola di meditazione vedica, dopo essere sceso verso il Kashmir seguendo il fiume Sindh.
Altre pergamene descrivono anche la sua seconda visita, quando, scampato alla morte sulla croce, tornò, in cerca di pace, dov'era stato a studiare e meditare da ragazzo.
La descrizione della seconda sua permanenza, come è preservata in queste pergamene, coincide perfettamente con le cronache reali del Kashmir, offrendo così al dubbioso un incredibile e inaspettato riscontro. Il re Gopadat infatti lo ebbe suo ospite e lo onorò grandemente, tanto che, quando nell'anno 100 d. C., fece restaurare e ingrandire il tempio detto Trono di Salomone, eretto in memoria della costruzione della diga voluta, appunto, da Salomone e che dà origine al lago Dhal (ma come c’entrerebbe Salomone col Kashmir se i kashmiri si sbagliassero circa le loro origini?), volle che sulla scalinata che conduce al tempio, fosse scolpita la storia della vita di Gesù, che era appena morto quando venivano iniziati i lavori di restauro del tempio. Gopadat aveva incontrato Gesù, mentre questi scendeva dalle montagne verso Srinagar, proveniente dal Ladhak. La descrizione della vita di Gesù scolpita nel marmo della scalinata è in prima persona e contiene una frase che, quando me l’hanno tradotta dal sanscrito, mi ha fatto rizzare i capelli in testa perché dice testualmente: "...ero arrivato come messia nella terra dei Malkiti [gli ebrei], ma lì hanno cercato di uccidermi mediante crocifissione".
Quando Gopadat incontrò questo santo viaggiatore, ne fu talmente colpito che lo prese immediatamente sotto la sua protezione ospitandolo a corte e, come narrano le cronache, gli offrì 50 donne che lo servissero. L'ospite rifiutò il dono, ma, all'insistenza del re, ne accettò una, che sposò (i loro discendenti sono tuttora a Srinagar, dove vivono, molto prosaicamente e senza alcun carisma, gestendo un ristorante, molto più consci degli effetti sui loro redditi del declino del turismo in Kashmir a causa della guerriglia in atto contro il Governo indiano da parte di gruppi filo-pakistani, che del loro grande Avo!).
Ho sentito dire da amici indiani che l’Università di Bombay (oggi si chiama Mumbai) sta traducendo queste pergamene e sono sicuro che, quando la traduzione sarà pubblicata, costituirà una vera bomba!
Il nome di Gesù è spesso indianizzato in Issa e in Yususaf, che significa "colui che guarisce i lebbrosi".
Fuori Srinagar c'è un luogo chiamato Aish Mukan, che significa "luogo ove soggiornò Gesù".
Non so, di tutto questo, che cosa sia verità, che cosa leggenda e quale interpretazione sia giusta o sbagliata. So solo che dopo queste esperienze ho imparato ad amare moltissimo l’archetipo rappresentato da Gesù e, ogni volta che mi trovo da quelle parti di mondo, non mi dimentico mai di portare un fiore su quella tomba sconcertante.
UNA STORIA DI SABBIA
Una leggenda dice che ogni corpuscolo di sabbia è una sillaba e che, quando il vento del deserto comincia a soffiare, lo fa perchè vuole raccontare una storia, che poi forma una duna. Sicchè il deserto non è altro che un immenso libro di storie, che, purtroppo, gli uomini non sanno leggere, perchè non hanno ancora imparato a distinguere una sillaba dall'altra.
Anch'io ho una storia da raccontare, una storia che vuole uscire da me, ma non sa come farlo.
I monelli che mi incontrano, sghignazzano e mi insultano. Talvolta mi lanciano pietre. Altre volte fuggono, impauriti.
Gli adulti mi scansano, disgustati dal mio aspetto sporco e miserabile.
Questa gente non sa che un tempo io ero il più giovane e il più valoroso dei generali di Aurangzeb, il re dei re e mio signore. Loro non sanno quanto grande fosse la benevolenza che il mio signore mi dimostrava. Non sanno che io, anche se ora vivo dell'elemosina che la misericordia di Allah (che il suo nome sia adorato nei secoli) permette mi sia fatta, un tempo sedevo alla destra del mio signore, che ordinava per me i cibi più fini.
Tutto cominciò alla battaglia di Khajuha, quando Jaswant dei Rathore assalì il nostro campo, lo saccheggiò e rubò la nostra Lal Dera, la Tenda Rossa, reggia da campo del mio signore.
Io ero allora un umile paggio alla Lal Dera. Vidi il mio signore in pericolo e così, presa la scimitarra di un caduto e, reso imbattibile dall'ira e dalla forza della mia giovinezza, combattei contro i più grandi guerrieri del deserto, ne uccisi in grande numero e salvai il re dei re da morte sicura o, peggio, da una prigionia ingloriosa.
Subito dopo, il mio signore mi conferì il titolo di Siwai, un uomo e un quarto in battaglia, e mi affidò il comando di armati. Con l'aiuto dell'Onnipotente, ebbi sempre fortuna sul campo di battaglia e, in breve tempo, divenni il più fidato dei sui generali e fui ricoperto di onori e di favori.
Fui io che confusi le armate di Shah Shujua e degli altri nemici di Aurangzeb e finalmente le sconfissi, assicurando al mio signore il suo trono di re dei re.
I miei soldati mi adoravano perchè combattevo sempre davanti a loro, dove maggiore era il rischio e perchè, dopo ogni vittoria, lasciavo a loro tutte le spoglie del saccheggio che premia i vincitori, cavalli, donne e oro, senza mai nulla tenere per me.
Solo una volta feci un'eccezione. Fu dopo la battaglia di Deorai, quando vidi tre dei miei soldati, ubriachi di vittoria e di vino, mentre si divertivano dileggiando una giovane donna dai capelli del colore dell'oro. La prendevano a spintoni, le strappavano le vesti, la trascinavano per i capelli, sghignazzando. I miei occhi incontrarono per un momento quelli della donna e videro il verde del mare. Vidi pure che non c'era paura in quegli occhi, ma solo orgoglio e fierezza.
Non so cosa accadde nella mia mente, so solo che la mia mano si mosse da sè, la mia scimitarra guizzò nell'aria e la testa del soldato più vicino cadde nella polvere, mentre gli altri due, improvvisamente sobri, si prostravano ai miei piedi. Senza una parola, presi dolcemente la donna per un braccio e la condussi alle mie tende, affidandola agli eunuchi, perchè la lavassero, la rivestissero e la rifocillassero.
Da allora la mia vita divenne diversa. Donai le donne del mio harem ai due soldati che avevo risparmiato e feci della bionda circassa la mia unica sposa. Passavo con lei tutto il tempo che la cura degli interessi del mio signore e del benessere dei miei soldati mi lasciava libero e la mia anima divenne leggera come un colibrì. Nessuno potrà mai descrivere la gioia dei miei giorni e la felicità delle mie notti. In battaglia divenni implacabile, invincibile, tanta era l'ansia di tornare dalla mia donna e bearmi della sua presenza. Era altera e nobile come una principessa del sangue, luminosa come le stelle della notte, preziosa come la rugiada per le antilopi del deserto, riposante come il suono del flauto, eccitante come la vigilia della battaglia e i sui capelli erano belli, come la criniera del mio cavallo preferito. Essa era tutte le donne del mondo e quando, dopo averla amata, ogni volta con raddoppiata passione, giacevo nella mia tenda con lei al mio fianco, sentivo il suo respiro ancora affannoso, il suo corpo che si rilassava e il suo capo adagiato nell'incavo della mia spalla, mentre facevo lentamente fluire i suoi lunghi capelli d'oro fra le mie dita, il tempo si fermava per me e un'immensa dolcezza permeava la mia anima. Quando non facevo l'amore con lei, sognavo, magari ad occhi aperti, di farlo. Ogni minuto passato lontano da lei era un minuto passato a sognare il momento in cui l'avrei rivista. Ogni nemico che uccidevo in battaglia riduceva il tempo che mi separava da lei e ogni partita di polo che giocavo era dedicata a lei. Il Profeta (la pace sia con lui e con la sua progenie) mi sia testimone quando giuro che mai uomo fu di me più felice.
I giorni e le stagioni passavano senza che me ne accorgessi. Vincevo le battaglie con la rapidità del fulmine e il mio signore, il re dei re, mi aumentava ogni giorno i segni della sua benevolenza.
Ero un uomo felice e rispettato!
Un giorno, il mio signore mi chiamò al suo cospetto e mi affidò il compito di attraversare la Terra della Morte per condurgli l'unica figlia rimasta al Maharajah di Jaisalmer, sua sposa promessa, dopo che il sovrano di Jaisalmer aveva perso tutti i suoi figli in battaglia ed egli stesso era stato gravemente ferito, sicchè indovini, astrologi e medici gli avevano predetto che mai più avrebbe potuto far figli. Esigenze belliche impedivano che il matrimonio fosse celebrato, come costuma fra gli idolatri indù, nella casa della sposa e, d'altra parte, esigenze politiche rendevano urgente quel matrimonio, tanto per il mio signore, quanto per il sovrano di Jaisalmer.
Presi in consegna i doni del mio signore per la famiglia della sua promessa sposa, organizzai una carovana e, con grande fatica, mi staccai dalla mia dolce sposa, che lasciai a corte, affidata alla protezione del mio re.
Inforcai il mio cavallo preferito, amico di tante battaglie e compagno di mille partite di polo, e partimmo una mattina all'alba.
Dopo pochi giorni entrammo nel deserto del Thar, la Terra della Morte. I cammelli trasportavano tutte le nostre cose: i ricchi doni del mio signore per la famiglia della sua promessa sposa, le nostre vettovaglie e il foraggio per i nostri animali, nonchè gli otri della preziosissima acqua, preservatrice della vita.
Giorno dopo giorno ci inoltravamo in un mondo di sabbia e di arsura. Dietro a ogni duna, ce n'erano cento altre fra noi e la nostra meta. Marciavamo di notte e agonizzavamo di giorno, sotto un sole implacabile, mentre vettovaglie, foraggio ed acqua cominciarono a scarseggiare e la nostra meta sembrava sempre più irraggiungibile. Il mio fedele cavallo, figlio del sole e del vento, mi camminava a fianco, sempre più a fatica, con gli zoccoli consunti dal suolo abrasivo, incapace di tenere il passo con i cammelli, di lui più adatti a quell'inferno di sabbia e di calura.
Dopo non so più quanto tempo, quando i nostri occhi non conoscevano più che l'accecante bagliore del sole o il gelido nero della notte, un tardo pomeriggio, arrivati in cima all'ultima duna, il nostro desiderio e la lontananza disegnarono improvvisamente per noi, alto sul deserto, un merletto di torri, di archi, di colonne, di bastioni. Jaisalmer, la città d'oro, era davanti a noi e il nostro viaggio era arrivato finalmente al termine.
Le porte della città si aprirono e ne uscì un nugolo di cavalieri per incontrarci. I loro cavalli freschi ci raggiunsero in un baleno e cominciarono a volteggiarci intorno, sospetto per farci perdere faccia.
Un mio palafreno, tolse il carico al suo cammello più veloce e mi offrì l'animale.
Ma come potevo io, il più valoroso dei generali del re dei re, entrare in Jaisalmer e presentarmi alla mia futura regina, in groppa a un misero cammello da soma, come se fossi stato un volgare mercante?
Il mio cavallo si accorse del mio problema, nitrì possente e mi cercò col suo muso, perchè gli salissi in groppa.
Montai in sella e appena mi sentì pronto, il mio splendido cavallo, figlio del sole e del vento, partì al gran galoppo verso la città, staccando tutti gli altri cavalli, anche se freschi e riposati, mentre la sua lunga criniera dorata sventolava come una bandiera.
Sentivo i battiti del suo cuore possente fra le mie ginocchia come colpi di spingarda e il vento che mi fischiava nelle orecchie, come in battaglia o come sui campi del polo.
Arrivato alla porta della città, il mio destriero si fermò ansimante, si voltò a guardare gli altri cavalli che arrivavano spossati e li accolse col suo potente nitrito di vittoria.
Quando smontai, mi guardò negli occhi, nitrì forte e s'impennò come per salutarmi, poi, improvvisamente, si allontanò, ventre a terra, per scomparire fra le dune.
Lo ritrovammo l'indomani, dietro la prima fila delle dune, morto, il mio orgoglioso cavallo, figlio del sole e del vento, compagno fedele di tante battaglie e di tanti chukkar. Non aveva permesso che estranei facessero perdere la faccia al suo padrone, non aveva permesso che altri cavalli lo battessero in corsa. E aveva pagato con la sua vita.
Scavai a mani nude una gran fossa e lo seppellimmo in piedi, con tutti i suoi finimenti più belli e la sua corazza di guerra, con l'onore delle armi, come meritava, ed io indossai per una settimana le bianche vesti del lutto. Si chiamava Buraq, come il cavallo alato del Profeta (la pace sia con lui e con la sua progenie), perchè di quello aveva la velocità e il coraggio.
Entrati a Jaisalmer, fummo abbagliati dalla bellezza di questa città del deserto e dalle sue case fatte di pietra dorata, in cui ogni colonna, ogni finestra, ogni arco è finemente scolpito da abilissimi artisti e reso, dal raffinato lavoro di questi, prezioso e leggero come filigrana. Scoprii presto, però, che Jaisalmer è una città interamente abitata da idolatri (che Allah li confonda o li faccia ravvedere), senza una sola moschea, per cui, per pregare, uscivo ogni volta col mio tappeto dalla sua porta occidentale, a cercare la pace del deserto.
Il sovrano di Jaisalmer mi ricevette con tutto il rispetto dovuto a un messo del re dei re. Era però evidente dal suo comportamento che dava la sua unica figlia in sposa al mio signore non come segno del rispetto dovuto al Moghul, re dei re, ma solo per guadagnare tempo e trovare un successore adatto nell'interno del suo clan, in modo da evitare che la sua città divenisse feudo diretto del mio signore, come le leggi e le usanze prevedevano in mancanza di un successore legittimo.
Ci fermammo a Jaisalmer per diverse settimane, durante le quali fui ospite della famiglia regnante e dormivo in una stanza piena d'ori, d'argenti e di sete. Ero, però, costretto a condividere il mio alloggio con un sacrilego idolo, con Shiva il distruttore, la cui faccia rotonda campeggiava al centro dell'alto soffitto. Ogni nobile di Jaisalmer si sentì in dovere di organizzare feste e banchetti e cacce e partite di polo in mio onore, sicchè i giorni passavano svelti.
Le notti invece no, quelle non finivano mai ed erano rese tristi e vuote dalla lontananza della mia donna. L'intensità con cui la sognavo era tale che spesso avevo l'illusione di averla vicina, sentivo il calore del suo corpo accanto al mio, le mie mani credevano di carezzare con passione le sue curve dolci e le mie dita pettinavano, nel sogno, i suoi capelli biondi. Le prime volte che ciò mi accadeva, mi svegliavo all'improvviso per abbracciarla ed ero sorpreso quando le mie mani trovavano solo l'aria fredda della notte, ciò che faceva discendere su di me una triste nube di malinconia e di struggente nostalgia. In seguito, invece, imparai, piano piano, ad assecondare la fantasia, tenendo gli occhi chiusi per non dissolvere l'illusione, cercando di far durare il sogno il più possibile, rimanendo immobile perchè il peso della sua testa nell'incavo della mia spalla non svanisse. E così immaginavo le sue carezze sul mio corpo e le sentivo come fossero vere.
Finalmente, un giorno partimmo.
I doni del sovrano di Jaisalmer per il re dei re, furono caricati su cammelli da trasporto. La principessa fu fatta salire su una palanchina chiusa da tende di seta e d'oro, trasportata da due coppie di cammelli. Altri cammelli da soma furono caricati con le vettovaglie, il foraggio e l'acqua preziosa.
A me fu fatto un dono che mi commosse: uno splendido cavallo che sembrava il gemello del mio Buraq e che, di questo, aveva il coraggio, la fedeltà e la forza.
Io cavalcavo in testa. Seguiva un drappello di lancieri, risplendenti nelle loro uniformi più belle.
Poi veniva il capo degli eunuchi, con la sua faccia da luna piena, sul suo cammello, seguito dalla palanchina della sposa promessa del mio signore, circondata da otto eunuchi.
Dietro la palanchina veniva un drappello di soldati, seguito dal corteo delle bestie da soma con le salmerie.
Chiudevano la carovana i miei cavalieri, per proteggerla da attacchi proditori.
Altri cavalieri facevano da battistrada e altri ancora pattugliavano i fianchi.
Durante la marcia, il capo degli eunuchi continuava a venirmi vicino di frequente, per portarmi, servile, ora un frutto fresco, ora una fiasca di dolce acqua, ora un pezzo di pane speziato, naturalmente dopo aver servito la sua padrona, e, ogni volta che incontrava il mio sguardo, mi sorrideva accattivante. Probabilmente mi era grato per la cure che mettevo nell'evitare ogni pericolo alla sua padrona e cercava di dimostrarmelo.
Tenemmo un buon passo e, il primo giorno, coprimmo una distanza di parecchie miglia.
Staccare una palanchina dai cammelli e depositarla al suolo è un momento pericoloso. Basta che un cammello decida di muoversi anzitempo o che un uomo si pieghi sotto il peso, perchè la palanchina si rovesci. Per evitare questo, avevo ordinato che due uomini tenessero fermo ogni cammello e che quattro uomini afferrassero ogni stanga e, naturalmente, da buon comandante, ero lì a controllare che i miei ordini fossero correttamente eseguiti.
Il campo fu montato e la cena fu preparata.
Controllai che i cuochi facessero bene il loro lavoro e, uscendo dalle cucine, vidi ancora la faccia da luna piena del capo degli eunuchi, mentre questi parlottava col capo dei cuochi e gli passava una piccola scatola.
Cenammo e preparammo il bivacco. Posi guardie armate a proteggere la sezione del campo riservata alla principessa, organizzai i turni delle sentinelle attorno all'accampamento e, finalmente, quando tutti s'erano coricati, consumai il mio pasto e mi ritirai nella mia tenda.
Riandai con la mia mente alle settimane passate a Jaisalmer e fui contento d'essere finalmente partito, perchè la vita lì non era certo quella adatta a un soldato. Banchetti continui, spezie, vini (che io non toccavo, come ordinato dal santo Corano). Però, anche così, mi sentivo spesso inebriato. Correva voce tra i miei soldati, che gli idolatri di Jaisalmer usassero mescolare ai cibi il succo di un papavero, capace di eccitare la mente e guidarla in artificiali paradisi, per cui, negli ultimi tempi, mi nutrivo prevalentemente di frutti e di carne arrostita, evitando cibi complicati in cui sarebbe stato facile mescolare l'oppio.
Finalmente la stanchezza vinse e mi addormentai.
Subito cominciai a sognare la mia amata, che presto avrei rivisto. Il mio desiderio di lei era spasimante, doloroso. Tanto intenso era il mio sogno, che provavo come una vertigine in cui mille ricordi di tempi, fatti e luoghi diversi in cui, però, c'era sempre la mia donna, si sovrapponevano in un'impossibile contemporaneità. Lei mi stava vicina, come al solito, con la testa nell'incavo della mia spalla ed io ero immobile per non disturbarla. Sentivo la sua mano che carezzava il mio torace e scendeva verso il mio inguine fino a raggiungere il mio sesso turgido di desiderio.
Tanto forti erano le mie sensazioni che improvvisamente aprii gli occhi e li volsi verso la spalla dove sognavo che si appoggiasse la mia amata e ci trovai il capo degli eunuchi, che mi carezzava gli inguini con le sue mani schifose.
Mi alzai di scatto e lo colpii selvaggiamente, pazzo d'ira.
Fuggì verso la porta della mia tenda, ma lì lo agguantai di nuovo. La mia mano toccò la mia frusta appesa alla porta della tenda, la presi e cominciai a colpirlo in preda a una furia omicida. Non lo uccisi per non dispiacere il re mio signore, distruggendo una proprietà della sua sposa promessa, ma ridussi la sua pelle ad una poltiglia sanguinolenta, prima di buttarlo fuori della mia tenda, con la minaccia di ucciderlo come un cane rabbioso se mi si fosse di nuovo avvicinato.
Da allora gli ordinai di seguire la palanchina della principessa anzichè precederla, per averlo lontano; presi l'abitudine di far montare la mia tenda dalla parte opposta dei padiglioni della principessa e cercai di dormire il meno possibile, passando la più parte della notte coi miei soldati di sentinella. Poi però, quando la stanchezza diventava invincibile, andavo a dormire nella mia tenda, ma tenendo sempre la mia scimitarra in pugno.
Così, da allora, tutto andò per il meglio. Il capo degli eunuchi mi stava lontano e sembrava servire la sua padrona con raddoppiate cure, mentre le sue piaghe guarivano lentamente all'aria secca del deserto.
Una sera, dopo qualche giorno, mentre la palanchina della promessa sposa del mio signore veniva abbassata a terra, una delle tende laterali s'aprì per un breve minuto e un bel volto di donna, incorniciato da lunghi, neri e lucidi capelli si mostrò alla mia vista. Prima che, per rispetto del mio signore, potessi voltare i miei occhi altrove, questi incontrarono i suoi per un breve istante, quanta bastò per vedere nel suo bel viso l'accenno di un sorriso. Voltatomi, vidi un ghigno sulla larga faccia del capo degli eunuchi e lo frustai, ordinandogli di andare dalla sua signora e assicurarsi che tutto fosse in ordine.
In seguito pensai che la principessa doveva essere persona di grande gentilezza, se s'era degnata di sorridere a me, umile servitore del suo promesso sposo, il mio signore, re dei re.
Per giorni e giorni continuammo il nostro lento viaggio. Per notti e notti continuavo a dormire con la scimitarra in pugno e il volto della mia donna amata nelle mie fantasie.
Una sera, mentre ispezionavo il campo e le sue difese, vidi ancora il capo degli eunuchi che passava qualcosa al cuoco, me lo trovai poi davanti perchè, uscendo dal recinto delle cucine, non mi aveva visto, e colpii d'istinto il suo ghigno con la mia frusta, ma senza sentirmi colpevole, perchè immenso era il mio disprezzo per lui.
Dopo aver cenato coi miei lancieri e dopo aver ispezionato le difese del campo, come facevo ad ogni tappa, entrai nella mia tenda e mi coricai. Subito cominciai a sognare. Fu una vertigine di ricordi quella che, ancora una volta, si impossessò della mia anima. Rivivevo, come se mi ci trovassi ancora, passate battaglie, passate vittorie, passate battute di caccia, passate partite di polo. Mi ricordai del puledrino dalla bionda criniera che trovai nel campo conquistato al nemico, vicino alla madre morta, come mi guardò con i suoi occhioni dolci e come mi seguì fino alla mia tenda. Rivivevo il giorno in cui avevo tagliato la testa a un mio soldato per salvare la donna che avrebbe cambiato la mia anima e la mia vita. Poi l'immagine svaniva e galoppavo su Buraq, il mio generoso cavallo dalla bionda criniera, non più puledrino indifeso, ma possente destriero, morto d'orgoglio fuori delle mura di Jaisalmer. Mi riveniva in mente quella città dorata e rivedevo la rotonda faccia di Shiva il distruttore. Poi l'immagine svaniva e sentivo il corpo della mia donna amata vicino al mio e le carezzavo i capelli, che, improvvisamente, non erano più capelli, ma la criniera del mio cavallo, in cui le mie dita passavano dolcemente come un pettine, mentre il suo collo fremeva. Poi la criniera si trasformava in lunghi capelli, per tornare ancora criniera e poi capelli e poi di nuovo criniera, mentre la sensazione di peso sulla mia spalla sinistra diventava sempre più reale e il sangue urlava nei miei inguini.
Aprii gli occhi e trovai la mia mano fra lunghi, neri, lucidi capelli, mentre la rotonda faccia ghignante di Shiva il distruttore mi guardava dalla porta della mia tenda, sulla destra del mio giaciglio. Lanciai la mia scimitarra contro quella faccia, che scomparve tra le altre tende, come d'incanto, mentre, con un balzo, la inseguivo. Inciampai in un montante della mia tenda e ritornai in me. Fuori, nella notte di luna piena, vidi due figure che sgusciavano via, scomparendo nell'oscurità, in due direzioni diverse. Tornai nella tenda, ansimante, con la testa che mi girava, lasciando aperto il telo della porta ai raggi della luna e, per il gioco delle ombre o forse per l'oppio che qualcuno doveva aver messo di nuovo nel mio cibo, mi sembrò di vedere l'impronta di due corpi sul mio giaciglio, su cui caddi in preda a un sonno di piombo, privo di sogni, simile alla morte.
L'indomani mattina, trovai la mia scimitarra fuori della tenda, con tracce di sangue rappreso sul suo filo e frustai il mio attendente, anche se questi giurava di averla sempre tenuta pulita.
Nei giorni seguenti non vidi più il capo degli eunuchi, ma non ci badai, perchè mi trovai a dover affrontare un altro problema, quando uno degli altri eunuchi venne a dirmi che la principessa desiderava essere accudita da donne, perchè era stanca degli eunuchi.
Ma dove trovare delle serve per la promessa sposa del mio signore, in mezzo al deserto?
Fummo fortunati perchè avvistammo un villaggio. Quegli idolatri però, quando videro le insegne del mio signore, re dei re, si rifiutarono di riceverci, per cui fummo costretti ad assaltare il villaggio ed a passare a fil di spada tutti i suoi abitanti, uomini, bambini e donne vecchie. Poi, una volta che la principessa ebbe scelte le sue serve, uccidemmo tutte le altre e continuammo il viaggio, dopo aver incendiato quella tana di idolatri.
Finalmente, con la seguente luna piena, arrivammo in vista del campo reale e ci disponemmo per passare l'ultima notte di viaggio.
Durante questa notte avvennero una serie di portenti di cui non capii subito il significato.
Prima di tutto, vidi un cammello allontanarsi a gran velocità dal nostro bivacco e scomparire nella notte, in direzione del campo del mio signore. Vidi la faccia del cammelliere solo per un momento alla luce della luna e mi parve quella rotonda dell'idolo sacrilego di Shiva il distruttore, che abitava la mia stanza a Jaisalmer e i miei incubi notturni al campo.
Mandai un messaggero al mio signore per chiedergli il rituale permesso per recarmi al suo cospetto, ma non ebbi alcuna risposta nel tempo d'uso. Dopo molte ore d'attesa, una pattuglia di guardie del re vennero a prelevare la principessa e la sua corte, ma, con mia grande sorpresa, tutti vennero fatti fermare al di fuori del recinto dei padiglioni reali.
Finalmente, mentre il corteo della principessa veniva fatto entrate nel campo reale, mi fu ordinato, a nome del mio re, di recarmi nello stesso luogo, da solo, senza cioè la scorta dovuta al mio rango.
Obbediente servitore del mio signore, mi precipitai al galoppo e, smontato, mi sentii afferrare, disarmare e condurre, con brusche maniere, nel retro degli alloggiamenti del re.
Qui arrivato, mi accorsi che il corteo della principessa era di nuovo uscito dal campo reale e si riavviava verso Jaisalmer. Le some dei cammelli che portavano i doni per il re dei re apparivano intatte, la palanchina aveva le sue stanghe curvate, come se fosse occupata.
Poi vidi di spalle il mio signore che conduceva per mano la mia dolce sposa verso le tende del suo harem e, mentre mi chiedevo che cosa stesse succedendo, apparve il carnefice. Dietro di lui c'era la faccia rotonda di Shiva il distruttore, nel viso mostruoso del capo degli eunuchi della principessa di Jaisalmer. Volse il suo ghigno verso di me e così vidi che la metà destra di quel viso era ridotta a una piaga purulenta, là dove la mia scimitarra lo aveva colpito.
Solo allora le nebbie della mie mente furono squarciate e capii perchè avevo perso la benevolenza del mio signore.
Strappai la lancia al soldato più vicino e la tirai contro la figura spregevole e ghignante del capo degli eunuchi. La lancia si infisse nella sua gola e lo inchiodò al montante principale della tenda, come un grottesco insetto di una collezione, mentre cento mani mi bloccavano.
Gridai con quanto fiato avevo in gola che volevo parlare al mio signore e alla mia sposa, ma il mio grido si tramutò in un gorgoglio sanguinolento.
Seguirono due colpi d'ascia e poi il ferro rovente.
Le ultime cose viste dai miei occhi furono la mia lingua e le mie mani su un vassoio d'oro con le insegne del mio signore.
Poi svenni e, quando tornai in me, in un uragano di dolore, mi trovai steso sulla sabbia rovente del deserto, chissà dove, con attorno a me, nello stesso tempo, il caldo atroce del sole implacabile e il buio della notte.
Qualcuno mi sollevò e fui curato, ma non so se questo ignoto benefattore fosse stato mandato dalla benevolenza di Allah o dalla perfidia di Shiva il distruttore.
Nove mesi di dolore, di infezione e di vagabondaggi nel deserto al seguito di miserabili carovane, senza nulla vedere con i miei occhi spenti, mangiando come un cane quello che Allah (che il suo nome sia sempre benedetto) si benignava di mandarmi, mi riportarono, finalmente, a Jaisalmer.
Il giorno del mio arrivo, seppi che la maharani aveva appena dato alla luce un figlio, nonostante che indovini, astrologi e medici, tutti fatti mettere, nel frattempo, a morte dal signore di Jaisalmer, avessero predetto la sterilità del maharajah suo marito, dopo le ferite in battaglia.
Seppi poi che, dal momento del ritorno della principessa dal campo del mio signore, nessuno aveva più saputo nulla di lei e che poi la corte aveva comunicato la sua morte proprio nel giorno in cui la maharani aveva partorito, sicchè nascita dell'erede al trono di Jaisalmer e cremazione della sorella erano avvenute quasi contemporaneamente.
Ora mi aggiro, come il più miserabile dei mendicanti, prendendo con la mia bocca, come un cane, il cibo che la misericordia di Allah (che il suo nome sia sempre benedetto) mi manda in questa città d'oro, dove fui accolto, meno di un anno fa, con grande onore e ascolto piccanti pettegolezzi sulle donne della famiglia regnante, sussurrati a mezza voce dalla plebaglia dei mercati. So, perciò, che il mio figlio sconosciuto sarà un giorno il sovrano di Jaisalmer, ma questo non mi consola perchè continuo sempre a farmi la stessa domanda: chi dirà al mio signore e alla mia amata che nel mio cuore non c'è mai stato il tradimento?
Questa è la storia che non potrò mai raccontare.
La mia sola speranza è che il vento del deserto la scriva nelle sue dune di sillabe e che qualcuno impari un giorno a leggere queste sillabe, affinchè il mio signore e la mia amata sappiano della purezza del mio cuore.
MARIA
I capelli biondi,
mossi dal vento del galoppo,
fuori del suo casco rosso.
Il suo cavallino spumeggiante,
veloce come il pensiero,
coraggioso come un eroe dell'Iliade.
Il colpo di stecca,
elegante,
in piena corsa.
I movimenti flessuosi
del suo corpo di fanciulla sempre verde.
il suo grido felice,
di ragazzina spensierata,
quando segna un gol.
La sua tranquillità,
la sua operosità,
i suoi sorrisi smaglianti,
il suo ragionare pacato,
giorno dopo giorno.
E la sua passione bruciante,
notte dopo notte.
Questa è la mia donna.
Dio, come ho fatto a trovarla?
A. B.
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